Contro Giovanni, o di quel che fa specie

Sventura vuole che tra i miei più cari amici figuri Giovanni, indomito specista. Secondo lui nella nostra società è considerato accettabile uccidere o far del male agli animali non umani. Ed in effetti ha ragione. Lo facciamo per vari motivi, ma soprattutto per ragioni di alimentazione, abbigliamento e ricerca scientifica. Tuttavia a me pare che il fatto che qualcosa sia accettato in una certa società non lo renda di per sé moralmente giustificato. Altrimenti sarebbero moralmente giustificate anche pratiche come lo schiavismo, l’infanticidio e simili, che nella storia culturale dell’uomo hanno trovato (e forse trovano tutt’oggi) una discreta diffusione. Tutti i Giovanni del mondo sarebbero d’accordo – credo, spero.

Di conseguenza, la vera domanda è un’altra:

È moralmente giustificato uccidere o far del male agli animali non umani per ragioni di alimentazione, abbigliamento e ricerca scientifica?

Nel tentativo di rispondere a questa domanda, sono stati elaborati vari argomenti; alcuni piuttosto ingenui, altri invece decisamente in malafede. Ma tra tutti quelli disponibili nell’arsenale del Buon Giovanni, non può certo mancare il cosiddetto argomento specista. Che suona più o meno così:

  1. Gli animali non umani non appartengono alla nostra specie
  2. Se degli individui non appartengono alla nostra
    specie, allora è giustificato ucciderli o fargli del male per
    nutrirsi, vestirsi e per fare ricerca.
  3. Dunque, è giustificato uccidere o far del male agli
    animali non umani per nutrirsi, vestirsi e per fare ricerca.

La cattiva notizia (per gli animali non umani) è che l’argomento messo giù così è valido. Bravo Giovanni. Dalle premesse (1 e 2) segue necessariamente la conclusione (3). La buona notizia invece (non per i nazi-Giovanni) è che la premessa 2 non sembra poi così solida. Di conseguenza l’argomento è infondato. Vediamo perché.

Innanzitutto non si capisce bene perché una differenza in termini di specie dovrebbe implicare una differenza in termini di status morale. Come si è già sostenuto altrove, quando si parla di etica sarebbe opportuno assumere la prospettiva dell’individualismo morale. Ossia:

“Il modo in cui un individuo può essere trattato si determini considerando non la sua appartenenza di gruppo, ma le sue particolari caratteristiche. […] Non è ragionevolmente possibile tracciare delle distinzioni sul piano etico quando non ne esistono sul piano fattuale.”

Per metterla più filosofica: non si può fare di tutta l’erba un fascio. Non ti piacerebbe essere discriminato in quanto italiano, e quindi mafioso, giusto Giovanni? Ma anche se tu fossi davvero italiano e mafioso (una delle due cose non è vera, ma non ricordo più quale), vorresti che i tuoi meriti personali fossero riconosciuti (ah, come chiede lui il pizzo, guarda!). Sono sicuro che preferiresti esser giudicato per quello che sei come individuo, per le tue reali capacità e nefandezze, piuttosto che per la tua appartenenza ad un gruppo. Pertanto:

“Gli individui vanno trattati nello stesso modo a meno che non vi sia tra di essi una differenza rilevante che giustifichi una differenza di trattamento.”

Ecco, per quale motivo allora la differenza di specie dovrebbe essere rilevante per una differenza di trattamento in termini di uccisione o far del male? Non si capisce. Di per sé, conta quanto la differenza di sesso o etnia (per esser chiari: come il due di picche). Sembra di gran lunga più rilevante la capacità di provare dolore, per esempio. E questa capacità appartiene tanto a Giovanni quanto alla maggior parte degli altri animali. Quindi tanto Giovanni quanto la maggior parte degli altri animali dovrebbero essere trattati allo stesso modo sotto questo aspetto.

Ma c’è di più. Perché il concetto di specie, come tutti i concetti-fascio, è problematico e sfuggente. Secondo la definizione standard di E. Mayr, la specie non è nient’altro che “una comunità riproduttiva di popolazioni (isolate riproduttivamente da altre) che occupa una nicchia specifica in natura.” Pertanto, gli individui che formano una specie possono riprodursi tra loro dando luogo a prole fertile.

Ma se così fosse, allora non farebbe parte della specie umana quella parte di popolazione (circa il 10% delle coppie umane) che non è in grado di riprodursi. Sarebbe quindi moralmente giustificato ucciderli o far loro del male per ragioni di alimentazione, abbigliamento o ricerca scientifica? Ti prego, ti supplico di rispondere fermamente di no, Giovanni. Farebbe davvero specie il contrario.



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