Free Trade Area of the Americas: una proposta sgradita

Il 20 aprile del 2001, in occasione del terzo summit delle Americhe tenuto a Québec City, in Canada, il movimento antiglobalizzazione ha protestato violentemente contro i negoziati americani volti alla creazione di un’area di libero mercato che sarebbe dovuta avvenire entro il 2005: la Free Trade Area of the Americas (FTAA). Il Popolo di Seattle contestava a gran voce la globalizzazione di mercati, regole e prassi economiche, accusate di negligenza e disinteresse verso i danni ambientali e le peculiarità di ogni singolo Paese.

La protesta era presenziata da più di 20.000 attivisti provenienti da svariate organizzazioni quali sindacati, gruppi della società civile come Greenpeace, Council of Canadians, New Democratic Party o ancora il Parti Québécois; oltre a molti universitari ospitati in chiese, campus e università locali. Nonostante la manifestazione sia stata feroce e la violenza contro la polizia da parte dei contestatori del tutto opinabile, le ragioni alla base di un tale gesto non possono che essere condivisibili.

L’FTAA fu una proposta di accordo per ridurre o eliminare le barriere commerciali tra tutte le nazioni delle Americhe e delle isole limitrofe, ad eccezione di Cuba. Gli stessi Stati americani, però, non condividevano un’unica opinione, come dimostra l’aspro giudizio del Brasile riguardo alcuni punti chiave del progetto, i quali avrebbero beneficiato unicamente le Nazioni già benestanti, ostacolando invece lo sviluppo dei Paesi più piccoli o più bisognosi.

Il piano si sarebbe basato sul già esistente North American Free Trade Agreement (NAFTA) e sui modelli dei cosiddetti Programmi di Aggiustamento Strutturale precedentemente introdotti nei Paesi latinoamericani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Perciò tra le altre erano incluse politiche di abbandono dell’industria domestica in favore degli interessi delle multinazionali estere, l’esportazione di prodotti agricoli al fine del pagamento dei debiti pubblici, la limitazione della spesa pubblica per i programmi sociali, la deregolamentazione di alcuni settori quali elettricità, trasporto, energia e risorse naturali, o ancora la rimozione degli ostacoli normativi per gli investimenti esteri.

In generale, le regole che sarebbero state imposte dall’FTAA avrebbero garantito alle multinazionali nuovi importanti diritti, persino nelle presunte aree protette quali sanità, educazione, sicurezza, protezione ambientale ed erogazione di acqua.

Quali sarebbero stati gli impatti della proposta sui Paesi latinoamericani? Numerose promesse piovevano sulle popolazioni. Per iniziare, una futura prosperità veniva assicurata dalla liberalizzazione dei mercati e da maggiori investimenti esteri. Tuttavia, prendendo come esempio le conseguenze messicane del NAFTA, dopo 30 mesi dalla sua ratifica gli Stati Uniti persero circa 600.000 posti di lavoro dopo che le società americane aprirono più di 2.700 maquiladoras in Messico. Dopo 8 anni di NAFTA, i salari messicani erano diminuiti del 30% mentre il costo della vita era aumentato del 247%, catapultando il 70% dei messicani in povertà.

Un’altra garanzia proclamata dall’FTAA consisteva nella eliminazione della fame nel mondo attraverso il libero scambio. Ciononostante, la prassi evidenzia un aggravamento della fame e della povertà a causa delle politiche di libero commercio, come ha dimostrato l’esperimento cileno che ha portato la percentuale di popolazione in condizioni di povertà dal 17% al 45% tra il 1973 e il 1990.

Un altro falso mito del libero mercato consiste nella professata possibilità di esportare ciò che un Paese può produrre economicamente e di importare ciò che sarebbe troppo oneroso realizzare. Eppure, il caso brasiliano mostra che nonostante l’esportazione dei fagioli di soia – utilizzati principalmente come alimento per il bestiame europeo e giapponese – dal Brasile sia schizzato alle stelle, la povertà e la fame in Brasile sono raddoppiate. Inoltre, secondo alcune stime, per ogni dollaro speso per i meloni del Centro America, solo 2 centesimi finiscono nelle tasche dell’agricoltore mentre il resto lo incassano le multinazionali statunitensi per la lavorazione, il trasporto e la commercializzazione del prodotto.

Le politiche di libero mercato messe in atto dal NAFTA e la proposta dell’FTAA portano i lavoratori dei diversi Paesi in una situazione di scontro reciproco, in una gara per chi può lavorare per meno soldi, dove una adeguata copertura sanitaria, opportune norme ambientali e garanzie dei diritti non risultano in cima alla lista delle priorità. Nonostante i governi ribattano che le nuove regole di libero mercato e investimenti siano state negoziate con la completa collaborazione dei propri cittadini, le popolazioni interessate alzano la voce per esprimere il loro totale dissenso nei confronti di una proposta che non ha nulla a che fare con gli interessi dei cittadini; e lo faranno sempre fino a quando il commercio internazionale non cesserà di essere di dominio esclusivo delle grandi multinazionali e delle élite che non hanno minimamente a cuore il benessere collettivo.



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