Siamo ancora Il secondo sesso?

Di Sarah Maria Daniela Ortenzio

Il 14 aprile 1986 muore a Parigi Simone De Beauvoir, brillante scrittrice e filosofa. La sua opera principale, Il secondo sesso (edito nel 1949), si pone come punto di riferimento del femminismo contemporaneo (appartenente alla cosiddetta prima ondata). Sebbene alcuni aspetti del saggio risultino un po’ datati (per esempio le nozioni scientifiche contenute nel primo capitolo), più che mai oggi l’opera si manifesta in tutta la sua sconcertante attualità, soprattutto tenendo conto dei passi da compiere per realizzare una società realmente paritaria.

Ciò che più colpisce affrontandone la lettura è quanto certe convinzioni (o certi miti, per dirla come De Beauvoir) siano attivamente presenti nei meccanismi di pensiero delle persone comuni. In particolare quelli attinenti alla sfera dell’erotismo. In una società sempre più mercificata e allo stesso tempo fortemente sessualizzata come quella attuale, i valori culturali connessi alla sfera erotica non mancano di condizionare in maniera incisiva tutti gli altri aspetti della vita di un individuo; in particolare, la vita di una donna.

Così quotidianamente assistiamo, inermi quando non passivamente complici, all’esecuzione di massa di omicidi perpetrati nei confronti di persone che scelgono di vivere la loro vita in quanto soggetti autonomi, all’attuazione coatta di stupri o molestie e alla vergognosa quanto accettata giustificazione delle stesse: circa il 30% delle donne italiane, dai 16 ai 70 anni, dichiara di aver subito nella propria vita una violenza fisica o sessuale; sempre in Italia, ”ogni anno […] vengono iscritte in media circa 209 contestazioni di reato inerenti la tratta di esseri umani”, la maggior parte a scopi puramente sessuali.

 

 

 

Vale dunque la pena ricordare oggi questa grande filosofa, e soprattutto riflettere su quanto alcune delle sue più impegnate e geniali intuizioni siano tristemente stabili e operanti nell’opinione collettiva, proseguendo in tal senso nel suo nobile proposito: quello di demolire le catene che strangolano l’autonomia degli individui.

 

LE PREMESSE FILOSOFICHE

De Beauvoir si prefigge l’obiettivo di dimostrare che ”Donna non si nasce, lo si diventa”, cioè che i soggetti siano plasmati fin dalla tenera età con l’obiettivo di inserirli in rigide etichette, denotanti ruoli famigliari, condizioni sociali, livelli culturali ben precisi. Se l’individuo di sesso maschile è destinato a divenire uomo di successo e culturalmente preparato, alla donna spetta la cura della casa e la gestione dei figli, nessuna autonomia economica, irrilevante posizione sociale, accessoria preparazione intellettuale.

Ma perché gli uomini avrebbero soggiogato e dominato le donne per secoli, privandole di ogni possibilità di realizzarsi in quanto soggetti? De Beauvoir risponde riprendendo alcuni concetti della filosofia hegeliana:

Tali fenomeni non si capirebbero se le realtà umana fosse esclusivamente un mitsein basato sulla solidarietà e l’amicizia. Si spiegano invece se si scopre […] nella coscienza stessa una fondamentale ostilità di fronte a ogni altra coscienza; il soggetto si pone solo opponendosi: vuole affermarsi come «essenziale» e costituire l’Altro in «inessenziale», in oggetto.

Dunque l’uomo viene identificato pressoché in ogni cultura come la trascendenza, incarnata nel simbolo del fallo e del coito: nel concetto dell’uomo vi è un radicale superamento della carne, della morte, della contingenza e uno slancio innato verso il divino. La donna, invece, viene riconosciuta in quanto immanenza: questa veste caduca ed effimera le viene avvolta addosso come un sudario; la vita delle femmine infatti tradizionalmente ruota attorno alle sfere strettamente interconnesse del matrimonio e della maternità.

 

VERGINE O PUTTANA

De Beauvoir nota come nelle stratificazioni sedimentate del mito la donna sia considerata simbolo esemplare del mistero della natura, nella sua connotazione più selvaggia e incomprensibile: ella racchiude il germoglio della vita nel sangue del suo grembo; ma quel sangue può significare anche la morte. In quanto natura, ella è totalmente inscritta nel segno della contingenza: poiché inessenziale, minaccia continuamente di travolgere la trascendenza e la soggettività incarnata dall’uomo.

Dunque il desiderio sessuale per il maschio si costituisce innanzitutto come desiderio di possesso: l’uomo che brama una donna anela alla sua conquista, al suo assoggettamento. Se Eva fu data ad Adamo in quanto sposa, e se simboleggia la potenza della natura, possederla attraverso l’amplesso significa dominare la natura. In questa prospettiva il sesso si tradurrebbe in un’efficacissima sintesi della storia della stirpe umana: la storia degli uomini che attraverso i mezzi tecnologici si affrancano dalla necessità di sopravvivere e soggiogano le risorse del mondo a proprio vantaggio.

Si comprende dunque qual valore debba avere per l’uomo il fatto di possedere una vergine: significa sondare una terra inesplorata, domare un puledro imbizzarrito. Da qui, forse, deriverebbe anche il disgusto e il sottile scherno rivolto alla «zitella», o a quelle donne che, dopo la deflorazione, si sono unite a uomini diversi. Da una parte vi è il disprezzo verso una terra sterile perché non fecondata, dall’altra l’astio verso una proprietà deprezzata perché posseduta da molti.

Potrebbero sembrare riflessioni fuori dalla nostra ordinarietà, ma quante volte è accaduto che una donna venisse giudicata sulla base del numero dei rapporti sessuali avuti? Quante volte per insultare una donna la chiamiamo troia o puttana, alludendo alla sua supposta promiscuità sessuale? Quanto sangue versato per adulteri reali o presunti?

 

COME EGLI LA DESIDERA

La sessualizzazione attiva nella società era meno accentuata nell’epoca in cui De Beauvoir scriveva. Eppure la filosofa riconosce una spiccata tendenza alla rappresentazione del femminile in quanto idolo: ”i costumi e le mode spesso si sono sforzati di escludere il corpo femminile dalla sua trascendenza”, con accorgimenti volti a immobilizzare la donna: i piedi costretti in scomode calzature, acconciature elaborate e abiti che limitano i movimenti, sedute depilatorie atte a pietrificare l’aspetto oscuro e mortifero della natura che la donna incarna.

Nella figura truccata e ingioiellata di una donna si osserva la natura asservita all’uomo. Ella deve essere desiderabile, pronta a soddisfare lo sfogo del desiderio di trascendenza dell’uomo. La bellezza deve essere stabile, statica, sempre uguale a se stessa, deve ispirare una brama di natura sessuale affinché sia carne feconda. La traduzione pratica di questi concetti si constata guardando i programmi televisivi: le donne sono spesso trattate alla stregua di soprammobili e chi ha ottenuto un discreto successo di audience si sottopone a costose e dolorose pratiche di chirurgia plastica al fine di mantenere quell’inerte e passiva bellezza, inessenziale e contingente.

E d’altro canto, chi viene accusato di una molestia o di stupro non cerca forse di puntare il dito su come la vittima fosse vestita? Se portasse pantaloncini troppo corti, una maglietta scollata, un trucco eccessivamente marcato? E costoro non vengono forse fin troppo spesso giustificati con l’acritica sentenza che la vittima, in fondo, se l’era cercata?

 

Simone De Beauvoir

 

La violenza di genere, nella prospettiva di De Beauvoir, si traduce in questo tentativo reiterato di possedere una donna, a dispetto del suo consenso. L’abuso non si riferisce a un desiderio sessuale innato e incontrollabile, ma alla volontà di stabilire su un soggetto il proprio potere e di ricondurlo alla sua immanenza.

Le analogie tra queste riflessioni e l’epoca attuale portano a riconoscere l’esistenza di una forte cultura che oggettifica il corpo femminile, considerato ancora come un mero mezzo per realizzare la piena trascendenza maschile. Dunque, nonostante i progressi attuati dalle politiche sociali, una domanda urge ancora, spontanea eppure brutale: siamo ancora il secondo sesso?

 


 

FONTI

S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Saggiatore, 1961

Il corpo delle donne

CREDITS

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