I racconti del cuscino: gli occhi chiusi non possono leggere.

“Quando Dio creò la prima immagine d’argilla di un essere umano, vi dipinse sopra gli occhi, le labbra, e il sesso. Quindi vi dipinse su il nome di ogni persona, affinché il suo possessore non potesse mai dimenticarlo. Se Dio era soddisfatto della sua creazione, dava vita all’immagine d’argilla dipinta, firmandola con il Suo proprio nome”

Con questa frase inizia I racconti del cuscino (The Pillow Book) di Peter Greenaway, e questa frase torna a stregua di litania diverse altre volte nel film.

La prima volta, queste parole accompagnano gli auguri di compleanno che il padre di Nagiko, scrittore calligrafo, le dipinge delicatamente sul volto. Lei è ancora una bambina, ma il gesto verrà ripetuto ogni anno.

Basterebbe questa prima scena a chiarire il tema: la scrittura.
Il resto del film chiarisce il senso del tema, quello della scrittura, quindi.

“Il giorno del mio sesto compleanno […], incoraggiata da mia zia, promisi solennemente che avrei tenuto un diario intimo, il mio pillow book. Lo avrei riempito di ogni sorta di affermazione, proprio come Sei Shonagon, e forse un giorno, come lei, avrei potuto riempirlo con i racconti su tutti i miei amanti”. Ecco un tassello in più.

Nagiko abbandona Kyoto, fugge ad Hong Kong.
È cresciuta con il padre che le dipinge il volto, e ora trova giovani amanti disposti a scrivere liberamente sul suo corpo. Finché conosce Jerome, un traduttore inglese che la persuade a essere scrittrice e non carta.
Quello di Nagiko diventerà un vero e proprio progetto: scrivere tredici racconti erotizzanti su tredici corpi nudi. La vicenda si mescola alla vendetta, alla gelosia e alla morte. Ai vertici del triangolo Nagiko, l’editore e il loro comune amante, il già presentato Jerome.

“Al pari di Sei Shonagon il mio senso dell’olfatto era molto sviluppato: l’odore di ogni tipo di carta mi deliziava. Mi ricordava il profumo della pelle”: Ora abbiamo tutti i tasselli che ci servono.

È un film sull’erotismo. È un film sulla scrittura.
È un film che fonde in una esperienza unica la vita, la scrittura, l’amore e la morte.
La scrittura nasce dalla carne stessa, e alla carne non può che tornare.
Scrivere è l’atto più profondamente erotico nel film. Ed è anche quello eroico: per le difficoltà e le umiliazioni che accompagnano Nagiko e il padre nel loro rapporto con l’editore.
Scrivere è atto profano: Jerome, sul cui corpo Nagiko ha scritto il quinto dei racconti, una volta morto, viene scuoiato e la sua pelle conservata prima dall’editore, poi da Nagiko stessa, sotto un bonsai.

Sebbene tematicamente vicino all’anatomopatologia, il film non perde mai la bellezza orientale figurativa, tra arabeschi e sfumature cromatiche, delicatezze espressive e voluttà garbate. Astratto, lento, ipnotico, circolare, dilatato.
Alla fine non compare la lunga lista degli stuntman, troviamo elencata una schiera di calligrafi, di artisti giapponesi del pennello che hanno lavorato per decorare i corpi degli attori del film nello sforzo di fondere carnalità e letteratura

Il legame c’è, e Nagiko stessa lo esplicita, parlando di Sei Shōnagon e delle sue Note del guanciale (枕草子 Makura no Soshi).

Sei Shōnagon, trentenne dama di corte dell’imperatore Sadako. Decimo secolo.
La cultura giapponese ha una parola per descrivere le sue Note del guanciale: zuihitsu. In italiano il discorso si complica invece e ci prendiamo più tempo e parole per arrivarci.
Il significato letterale di zuihitsu  è seguire il pennello, e cioè fare in modo che la mano che guida il pennello segua il pensiero senza una trama precisa. È un diario, ma anche non lo è. È una serie di aneddoti, considerazioni, pensieri sparsi, riflessioni, brandelli di ricordi, divagazioni, pettegolezzi di corte, liste, brevi liste, lunghe liste, liste di cose piacevoli, disarmoniche, brutte e luride, belle se grandi, davvero antipatiche, che procurano un caldo soffocante, che dovrebbero essere corte, che fanno bella figura nella casa, antitetiche, rare, deludenti, irritanti, sgradevoli a udirsi, venerabili

“Quando mi sento così delusa da provare rancore verso il mondo intero, così depressa da non avere più desiderio di vivere, neppure per un istante, ma di voler fuggire lontano, dove non importa, se mi capitano tra le mani semplici fogli di carta bianca e un buon pennello, cartoncini bianchi o carta di Michinoku, immediatamente mi rassereno e penso che la vita valga ancora la pena di essere vissuta. Oppure se distendo un tatami dai bordi damascati e ne ammiro la fibra ancora di un tenero verde, dolcemente rigonfia, la minutezza dell’intreccio, la netta distinzione tra il nero e il bianco dei disegni del bordo, mi accorgo che non potrei mai abbandonare questo mondo senza rimpianto e la vita stessa mi appare più preziosa che mai” 

Diversi secoli separano Sei Shōnagon da Nagiko, ma il loro dialogo è ampliato e disteso da Greenaway. Alla fine del film come alla fine delle trecento note di Sei non so chi domina davvero, se il piacere la pena. Ma questo è l’eterno incanto della scrittura.


frase pubblicizza: la scrittura ad Oriente: da Sei Shōnagon e Peter Greenaway. 



 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.