Le litografie di Escher come specchio tra finito e infinito

Escher sceglie il disegno come strumento di manipolazione del reale attraverso la logica dell’impossibile. Infinite realtà si compenetrano su una superficie finita in un perenne passaggio tra dimensioni volumetriche.

Maurits Cornelis Escher si afferma sulla scena artistica novecentesca come incisore e grafico. La passione giovanile per il disegno evolve attraverso la tecnica xilografica e litografica. Quest’ultima consiste in una stampa ad incisione a partire da una matrice in pietra calcarea, sulla quale è realizzata l’illustrazione mediante una matita grassa o saponosa. La pietra viene inumidita con acqua per poi essere inchiostrata con il rullo del torchio litografico. L’inchiostro aderisce sul disegno e viene respinto dalle parti umide. La compressione della matrice sul foglio rilascia poi l’immagine speculare. Attraverso questa antica tecnica, Escher realizza le litografie in bianco e nero. Dal 1923 la sua attenzione si rivolge ai paesaggi dell’Italia meridionale. Il sogno mediterraneo sfuma però con l’avvento del fascismo, che conduce l’artista olandese, in prossimità della guerra, in Svizzera e Belgio.

Lontano dalle architetture italiane, Escher costruisce nuovi mondi attraverso il disegno. Nel 1936, un viaggio in Spagna lo avvicina alle decorazioni moresche dell’Alhambra. La partizione regolare della superficie attraverso tassellature geometriche perfettamente incastrate. La logica creativa è matematica. Le idee della matematica sono mentali, astratte e governano la realtà. Il disegno è l’unico strumento in grado di comunicarle, rappresentando un mondo rovesciato, che mette in dubbio la percezione visiva umana. Spazio bidimensionale e tridimensionale convivono sulla stessa superficie cartacea e la compenetrazione di volumi differenti dona plasticità alle figure. Questo è reso possibile dall’intelligente gioco di chiaro scuro elaborato dall’artista. Lo dimostra la litografia “Reptiles” (1943). Le lucertole  attraversano consistenze volumetriche differenti, ma di fatto, si muovono sull’unica faccia di un’unica superficie. È il nastro di Moebius. Un loop infinito che confina i soggetti in un moto perpetuo.

Reptiles (1943)

L’infinita estensione spaziale emerge dalle architetture impossibili di Escher. Sono il frutto della diretta ispirazione alle “carceri d’invenzione” di Giovanni Battista Piranesi. Prigioni labirintiche dominate dalla vertigine, dove lo spazio è tagliato da infinite scale che conducono in direzioni diverse. O non conducono da nessuna parte. Queste aprono spazi inquietanti, dove le figure umane sono abbandonate in un luogo che offre loro infinite vie di evasione. Ma la loro, è una prigione mentale. Sembrano non accorgersi gli uni degli altri. Come in “Relatività” (1953), dove Escher scopre un mondo relativo. La prospettiva è ribaltata. Tutto è possibile. Il disegno rende visibile la compenetrazione di più realtà, svelando infiniti mondi.

Relatività (1953)

L’artista sfrutta lo specchio per manipolare lo spazio. La superficie riflettente di “Mano con sfera riflettente” (1935) amplifica la percezione visiva dello spettatore. Lo specchio è un potenziatore dell’occhio umano. Svela angolature nascoste. Moltiplica le forme nello spazio. Mostra l’infinito contenuto nel finito. Lo specchio è lo strumento di mediazione nel passaggio dimensionale. Sono ancora le lucertole di “Reptiles”, che perdono la loro tridimensionalità quando si dissolvono sulla carta a stampe, ma poi la riacquistano. La magia del disegno gioca sul concetto stesso di spazialità attraverso la compenetrazione di più dimensioni su una stessa superficie. Questo concetto è ben illustrato dall’opera “Galleria di stampe”(1956). L’osservatore segue con lo sguardo la sequenza di edifici che si estendono sopra il porto. Questi continuano al di fuori del dipinto, svelando ciò che non è mostrato nella chiusura perimetrale della cornice. Quella di Escher è un’opera, che contiene un’altra opera, che contiene sé stessa. Un processo di inclusione infinita che esemplifica l’effetto Dorste.

galleria di stampe (1956)

Escher non sceglie il disegno come fase antecedente alla creazione pittorica, ma lo rende protagonista. Le sue litografie catapultano lo spettatore in un immaginario possibile oltre lo specchio. “Ma da Escher non si esce e mi ritrovo qui da capo” canta Caparezza in “Fai da tela”. Questo perché una realtà include l’altra, in un processo circolare, che riconduce sempre al mondo reale. Il punto di partenza. I disegni di Escher sono un riflesso della realtà, non però così com’è, ma in relazione a cosa potenzialmente nasconde.


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