DOSSIER| UN VIAGGIO VERSO LA TERRA (NON) PROMESSA

Di tutti i Paesi che negli ultimi anni hanno costruito, o cercato di costruire, muri lungo i propri confini, Israele è quello che ha profuso più energie in questa direzione. Lo Stato ebraico ha praticamente tentato di rendersi ermetico, avviluppandosi in una morsa di cemento e filo spinato lunga migliaia di chilometri. Israele confina con Paesi che non ne riconoscono la sovranità, come Libano e Siria, dai quali è separato da una barriera di filo spinato; e anche con i Territori palestinesi, che sono “rinchiusi” dentro la controversa e nota barriera di separazione, ufficialmente costruita per impedire il passaggio di terroristi.  La cortina è però scesa anche sul confine con l’Egitto, un Paese arabo con cui Israele è in pace dal 1978 e con cui intrattiene rapporti diplomatici. Da dove viene la scelta di costruire una barriera con il vicino meno ostile dei paraggi?

La parte di Egitto con cui Israele confina è la penisola del Sinai, un luogo noto per Mosè, per Sharm el-Sheikh e per essere diventato, negli ultimi anni, il Far West del Medio Oriente. Si tratta di un territorio egiziano, in cui però la sovranità del Cairo è messa in discussione da presenze terroristiche e criminali quasi impossibili da tenere sotto controllo. Per questo Israele ha deciso di evitare problemi erigendo, nel mezzo del deserto, l’ennesima barriera di filo spinato. Quest’ultima, però, serve anche ad un altro scopo: cioè impedire l’“infiltrazione” di immigrati irregolari di origine africana, che nell’ultimo decennio si sono riversati a migliaia nello stato ebraico.

La barriera, eretta in mezzo al deserto, che divide Israele dall’Egitto

In Europa, presi come siamo dalla nostra “emergenza immigrazione”, non si parla molto di questa realtà. Eppure esiste tutta una vicenda di arrivi, detenzione, disagi sociali, espulsioni, anche in Israele, che normalmente passa alle cronache per fatti diversi, nonché ugualmente tristi, come il conflitto con i palestinesi e l’occupazione dei loro Territori. Si tratta di una storia poco raccontata, che però merita un po’ di attenzione.

 Immaginate di essere un sudanese od un eritreo in fuga dalla propria terra di origine; poi controllate la mappa, e vedrete che, in effetti, il Paese occidentale più (apparentemente) a portata di piedi è proprio Israele. Il viaggio comporta l’attraversata del deserto, passando per i più disparati pericoli, non ultimo quello di finire nelle mani delle bande armate che spadroneggiano nelle sabbiose contrade nordafricane. Chi riesce a superare tutti i pericoli del viaggio, cerca di entrare, con mezzi fortuiti, in Israele. E qui, dopo aver attraversato le forche caudine del Sinai, dove gli immigrati sono alla mercé di tribù beduine e gruppi criminali, li aspetta una realtà di rifiuto ed ostilità.

Più o meno è la stessa storia dell’immigrazione che passa per la Libia verso le nostre coste. La differenza sostanziale tra l’Europa ed Israele, però, è che il secondo non ha mai avuto, per anni, nemmeno l’ombra di una politica verso questo tipo di immigrazione. Nemmeno una politica fallimentare, nemmeno un progetto che si sia tentato di attuare, prima di vederlo naufragare. Niente.  In questa vicenda, Israele si è affidata ai suoi sport nazionali preferiti, cioè l’improvvisazione e l’approssimazione, gestendo l’emergenza giorno per giorno, senza una visione a lungo termine. L’unico punto su cui le autorità israeliane sono state ferme è il rifiuto di concedere lo status di profughi alla stragrande maggioranza degli immigrati irregolari, il 99% dei quali è rimasto tale una volta varcati i confini dello stato ebraico.

Così il viaggio della speranza verso Israele si è trasformato in un incubo senza fine. Dopo la fuga dalla guerra, dopo aver attraversato il deserto, passati i rigidi confini dello Stato ebraico, questa gente si è trovata davanti il nulla, e dopo il nulla l’ostilità di un Paese ossessionato dagli equilibri demografici e dalle minacce provenienti dall’altra parte dei propri muri. E, oltre a ciò, impreparato a riconoscere la triste situazione di queste persone, e invece lesto nell’etichettare i profughi come migranti economici passibili di rimpatrio. Come accennato sopra, la politica di Israele nei confronti di questa realtà è stata confusa. Sono stati aperti centri di semi-detenzione i cui costi sono molto alti, ma al contempo è stata limitata ai profughi la possibilità di lavorare e di accedere ai servizi sanitari. Anche le politiche di rimpatrio, che pure sono state implementate, sono state contraddittorie ed in larga parte inefficaci. Per tirare le somme, solo la retorica politica contro gli “infiltrati” è stata ben strutturata e vivace, ed in questo, evidentemente, Israele ed Europa non sono poi così diversi.

Una manifestazione di profughi africani nel centro di Tel Aviv

La destinazione del viaggio di questi profughi, che nel 2017 hanno raggiunto il numero di 33 mila individui, è in genere il sud di Tel Aviv, la più grande e ricca città israeliana, i cui quartieri meridionali, tradizionalmente disagiati, sono diventati il rifugio precario di questa gente che vive sul filo del rasoio, tra rifiuto sociale e rischio di deportazione. Tel Aviv Sud è diventata così una zona negletta, una bomba ad orologeria sociale in cui degrado, piccola criminalità e droga si sono moltiplicati come un’erba infestante. Un’ erba che cresce grazie al concime di una politica assente e cieca.

Tutto questo scenario descrive una realtà che presenta molte similitudini con quella europea, seppur numericamente molto più contenuta. Le storie si rincorrono sulle sponde del Mediterraneo e si somigliano l’una con l’altra. Quello che però suscita un effetto particolare, nel parlare di profughi ed Israele, è la particolarissima storia di questo Paese.

Israele ospita una popolazione che ha le origini più disparate che si possano immaginare. Questo Stato ha di fatto raccolto ebrei che provenivano da ogni parte del globo. I nonni o i genitori degli israeliani di oggi erano sopravvissuti alla Shoah che arrivavano per mare su carrette simili a quelle che oggi solcano il canale di Sicilia. Erano ricchi ebrei americani che raggiungevano il Paese su aerei di lusso. Erano ebrei russi che sfuggivano dal regime comunista con mezzi di fortuna. Erano membri di piccole comunità ebraiche insediate da secoli in posti come India, Iraq, Turchia, Egitto, Marocco, e che da un giorno all’altro, per i motivi più disparati, hanno dovuto fare i bagagli e andare in Israele. C’erano anche ebrei etiopi, di pelle nera, che sono arrivati in Israele dopo un viaggio denso di peripezie e in cui molti hanno perso la vita. Un viaggio che ricalca più o meno il tracciato di quello compiuto dagli “infiltrati” africani oggi.

Un’immagine d’epoca che mostra un gruppo di ebrei yemeniti in viaggio verso Israele

Il punto a cui vogliamo arrivare è chiaro: Israele è praticamente un campo profughi. Forse un campo profughi di lusso, pieno di sofisticatezze, di multinazionali e start up, con un apparato amministrativo organizzato ed un esercito ben armato. Ma niente di tutto questo cancella il fatto che, in passato, una delle vocazioni dello stato israeliano sia stata quella di essere la meta del viaggio di milioni di persone, spesso provenienti da realtà ostili. Spesso, di fatto, profughi e sopravvissuti alla guerra.

Oggi, però, Israele non è più la terra promessa. È diventata una fortezza ambulante, un ghetto cinto da muri e filo spinato, i cui abitanti, gelosi del proprio benessere ed ansiosi per la propria supremazia demografica, escludono chi ha più bisogno d’aiuto. Così, l’immigrazione non ebraica è vista come una minaccia da respingere con tutti i mezzi, o perlomeno da togliere dalla vista, da dimenticare. In mezzo a tutto ciò, c’è il dramma umano, quello che conosciamo anche nelle periferie europee, travagliate dalla cattiva gestione dell’“emergenza profughi”.

Tutto il mondo è paese, purtroppo.

 

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