Selah Lively, un giudice.

La storia è quella di un giudice affetto dalla sindrome di nanismo. Il protagonista è lui, gli altri personaggi sono solo uno sfondo necessario per avere un riscontro con la realtà. I narratori, invece, sono squisitamente sui generis.

Edgar Lee Masters e Fabrizio De André.

Suppose you stood just five feet two, suggerisce Edgar Lee Masters. Nel nostro libro la traduzione è fedele: five feet two diventa un incomprensibile cinque piedi e due pollici. Ancora non riuscite a immaginarlo, naturalmente, come d’altronde neanche noi.

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura?, taglia corto De André. Il poeta americano è certamente più sensibile; intende infierire ma lo fa sempre con una certa delicatezza, come se avesse paura di far del male a qualcuno. Forse a un giudice, chissà.

De André, a sua volta, non si limita a porre la domanda, ma fornisce prontamente la risposta.

Te lo rivelan gli occhi e le battute della gente

O la curiosità d’una ragazza irriverente

Che si avvicina solo per un suo dubbio impertinente

Vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani

Che siano i più forniti della virtù meno apparente

Tra tutte le virtù la più indecente.

 Per niente delicato. Masters, invece, porta avanti il suo discorso raccontando la carriera di questo giudice, chiamato Selah Lively, e spiegando come il raggiungimento del potere abbia significato, per lui, una rivalsa.

And through it all

They jeered at your size, and laughed at your clothes

And your polished boots? And then suppose

You became the County Judge?

 Insomma, dice Masters, immaginate di essere stati presi in giro tutta la vita per la vostra statura, don’t you think it was natural / That I made it hard for them? Certo che sì. L’aspetto sarcastico di questa poesia sarà chiaro e lampante agli occhi di tutti; ma, pur essendo il fulcro, il discorso non si esaurisce lì. Masters ci lascia a metà, scissi, pensierosi. Perché, in fondo, la vendetta è umana e fa parte di ognuno di noi. Diventare importanti e vendicarsi di tutti i torti subiti rappresenta un finale quasi glorioso: se si trattasse di un film gli spettatori tirerebbero un sospiro di sollievo. La cattiveria è normale, se si è stati costretti per una vita intera a subirla.

Masters, insomma, rende Selah Lively un personaggio assolutamente comico, ma lo perdona.

De André, invece, non perdona mai.

È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti

La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo

Fino a dire che un nano è una carogna di sicuro

Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

 Ora, è vero che si tratta di maldicenze. Ma, dal nostro punto di vista, De André è più narratore che personaggio, più manzoniano in questo senso, più distaccato, rispetto a Masters, che mantiene fino alla fine una certa solidarietà con il proprio protagonista. Per tutta la poesia è così. Il poeta è più vicino al suo personaggio rispetto al cantautore, in qualche modo sembra addirittura fare il tifo per lui. De André non fa il tifo, scrive una canzone dove riesce a parlare in maniera estremamente elegante di argomenti di basso, bassissimo livello, ma tra le sue belle parole è sempre pronto a puntare il dito. Con questo non vogliamo dire che incolpi il giudice in questione, che gli imputi di essere una vera e propria carogna: non è di questo che si tratta. A lui non importa chi sia quel personaggio, l’impressione è che, leggendo Masters, De André sia stato ispirato dalla vena sarcastica e l’abbia attorcigliata indistintamente attorno alla sua canzone, in modo da colpire tutti: giudice, corte, giuria, pubblico, maldicenti. La sua satira non è rivolta realmente contro Un giudice –in questo il titolo inganna. La sua satira è rivolta contro ogni tipologia umana dotata di intelletto. In questo è diverso da Masters, che scrive una storia per raccontare quella storia. De André, invece, scrive una storia per raccontare La Storia. E ne La Storia, la colpa è condivisa. Non ricade su un singolo personaggio, su una singola tipologia di persone, né su un gruppo. Ognuno di noi merita di essere messo al centro di un discorso satirico, e in questo Fabrizio De André è coerente fino alla fine. Non fa distinzioni né favoritismi, comincia con un giudice, assalta la corte, il pubblico e poi, alla fine, anche ciò che l’uomo ritiene ineffabile, indescrivibile, intoccabile. Ogni cosa diventa vittima delle sue parole, nessuno viene escluso. Anche chi, nell’opinione comune, dovrebbe esserlo di diritto.

E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio

Prima di genuflettermi nell’ora dell’addio

Non conoscendo affatto la statura di Dio.

 



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