Anno fake news, bilancio complesso

Un anno di fake news: un bilancio complesso

Per molti commentatori il 2017 è stato l’anno delle fake news. Giornali importanti, come Corriere della Sera e Quotidiano Nazionale (l’edizione nazionale de Il Giorno, La Nazione e Il Resto del Carlino), hanno elaborato una classifica che enumera le tante bufale in cui siamo caduti nello scorso anno. Il sottinteso ovviamente è: se non ci fossero i grandi giornalisti che ci tirano fuori dalla palude della nostra ignoranza, saremmo così accecati dalle moderne tecnologie della comunicazione da credere a ogni bufala che ci viene propinata. Per fortuna che ci sono i giornalisti a salvarci da un così triste destino! A scorrere la lista però la situazione si fa un po’ più complessa: nella costruzione, propagazione e diffusione delle fake news emerge anche qualche responsabilità dei giornalisti.

Entrambe le classifiche delle peggiori bufale del 2017 si aprono con la foto della donna musulmana che passeggia incurante davanti ai feriti sul ponte di Westminster, una fotografia circolata sui social network come emblema del disinteresse arabo per le vittime del terrorismo islamico: la foto però si è rivelata in realtà falsa, o, meglio, ingannevole, nel senso che, guardando bene il volto della donna, si vede chiaramente uno sguardo atterrito e sconvolto, anche se a prima vista può sembrare una persona che messaggia tranquillamente con il cellulare. I social network, facili a indignarsi, era prevedibile che sarebbero caduti in errore; ma anche il mondo giornalistico è tutt’altro che vergine su questo fronte. Vi ricordate le immagini dei bombardamenti in Siria e in particolare la foto del piccolo Omran, insanguinato e ricoperto di macerie dopo un bombardamento governativo in Siria? In quel caso a cader preda della facile indignazione furono i grandi media mainstream di tutto il mondo: ecco l’immagine della vergogna, la prova delle crudeltà del regime di Assad! Ma anche qui, a guardar bene la foto e il video che l’accompagnava, emergevano retroscena (omessi) che cambiavano di parecchio l’interpretazione dell’immagine. Innanzitutto non è mai stato ben chiarito chi sia stato il vero responsabile del bombardamento (un particolare non da poco, anche considerando la prontezza con cui i ribelli si sono fatti trovare con troupe pronta al seguito per immortalare la tragedia); poi alcune delle persone che si intravedono intorno al bambino sono tutt’altro che angeli umanitari: anzi, una di quelle figure è stata riconosciuta come un terrorista, responsabile della decapitazione di un bambino palestinese. Insomma, anche questa volta la realtà dietro la fotografia era decisamente più complessa, ma è solo a quasi 2 anni di distanza che anche i grandi giornali hanno iniziato a rendersi conto che quell’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani a cui facevano riferimento per notizie, foto e video, non era un’agenzia umanitaria, ma il braccio mediatico dei terroristi in guerra contro Assad.

Nell’elenco delle grandi fake news dell’anno scorso entrambi i giornali poi si scagliano contro i video anti-islamici condivisi da Trump, e segnalano anche un’analoga bufala islamofobica che ha avuto grande risonanza mediatica: il caso della bambina di 9 anni di Padova, data in sposa a un 35enne e quindi da lui violentata. Ai tempi, quando uscì la notizia su Il Gazzettino e Il Messaggero, la Procura e i Carabinieri smentirono subito, ma questo non impedì a grandi guru del giornalismo italiano, come Mattia Feltri, di scrivere editoriali scandalizzati in prima pagina, salvo poi doverli eliminare e rettificare, naturalmente scaricando ogni responsabilità sugli altri. E la conclusione delle “scuse” di Feltri è significativa: l’editoriale comunque resta vero, perché queste cose succedono veramente. Nella sostanza è esattamente quello che ha detto anche lo staff di Trump in sua difesa dopo le polemiche sui video anti-islamici: la minaccia è reale ed è di questo che sta parlando il presidente. Sotto quest’aspetto non c’è poi una grande differenza tra la condivisione facile di Trump e la scarsa attenzione alla verifica delle fonti da parte di certo giornalismo scandalistico.

Del resto quando i mass media prendono materiali dai social network rischiano spesso di non comprenderli nella loro vera natura: emblematico è il caso dell’immagine della sorella della Boldrini che aiuta i migranti (sempre elencata tra le peggiori fake news del 2017). Lo Sbuffo ne aveva già parlato quando la Presidente della Camera Laura Boldrini ne aveva fatto la bandiera della sua lotta contro le fake news: alla pasionaria della crociata anti fake news però era sfuggito il piccolo particolare che si trattava in realtà di satira, un’immagine che ironizzava sulle più spinte bufale online riguardanti la famiglia Boldrini. Per intenderci, sarebbe come se qualcuno usasse Lercio per lanciare l’allarme sul problema delle notizie false nel mondo del giornalismo. È passato un anno e questa fake fake news viene ancora spacciata come immagine simbolo.

Ma il caso senza dubbio più eclatante tra quelli inseriti nella rassegna delle fake news dello scorso anno è la vicenda Blue Whale. Il Corriere della Sera liquida tutto scaricando ogni responsabilità sulle Iene, dimenticando però che nei giorni di massimo splendore su qualsiasi testata giornalistica e televisiva sprecavano gli articoli allarmati. La dinamica mediatica della Blue Whale è stata decisamente più complessa di questa frettolosa autoassoluzione: l’avevamo descritta, con un lavoro che potremmo definire di filologia giornalistica, nel nostro articolo Blue Whale: come nasce, cresce e si trasforma una notizia. E successivamente avevamo dato conto anche di come come fosse andata a finire la vicenda. Nella sua natura tutta mediatica la Blue Whale ha rappresentato un vero e proprio esempio di fake news, cioè non tanto quelle bufale strampalate che circolano sul Web soprattutto con finalità acchiappaclick: in questo caso invece si è trattato di una notizia, che malamente compresa e ancor peggio trasmessa, ha poi creato una mitologia mediatica in cui è diventato praticamente impossibile discernere il vero originale e il falso successivo. È su questo che il mondo del giornalismo dovrebbe riflettere, piuttosto che cullarsi su una (spesso inesistente) superiorità rispetto a Internet.

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