Gli album del mese secondo la redazione

In questo freddo inverno che sembra non voler allentare la sua gelida presa, torniamo come ogni mese a consigliarvi quegli album che più ci hanno colpiti.

Buon ascolto

Giuseppe Allegra

Black Panther: The Album – Various Artists (2018): è da un paio di anni che si è diffusa la tendenza di affidare degli album con canzoni “ispirate e tratte da” particolari film (prevalentemente blockbuster) a star della musica internazionale. La Marvel spara il colpo grosso e per il suo nuovo cinecomic, Black Panther, affida tutto al mostruoso Kendrick Lamar. Il risultato è un album sorprendente, con ospiti illustrissimi (SZA, Khalid, Schoolboy Q, The Weeknd, Swae Lee, James Blake), che è riuscito in pochissimi giorni a sbancare le classifiche e fare incetta di complimenti dai critici. Un’esperienza per le orecchie, prodotta da un genio della scrittura contemporanea.

Valentina Camera

L’amore e la violenza dei Baustelle: In attesa del prossimo album in uscita a marzo, ho deciso di conoscere questo trio tramite il loro ultimo lavoro. Che dire, sono rimasta piacevolmente sorpresa. I testi, per quanto semplici, sono ricercati e non banali, accompagnati da motivi che mi ricordano Battiato. Di sicuro è un punto di partenza per scoprire questa band, per quanto sia un album diverso dai precedenti, ma mette molta curiosità circa il prossimo album. Come brano migliore sceglierei Betty, ma l’album nel suo insieme è piacevole e si lascia ascoltare.

Susanna Cantelmo

Greatest Hits: 40 trips around the Sun dei Toto: Il 9 febbraio è uscito Greatest Hits: 40 trips around the Sun per celebrare i 40 anni di carriera dei Toto, per molti sono solo quelli di “Africa”, il loro più grande successo, ma in realtà questa band così longeva può vantare un pubblico estremamente variegato e un repertorio da cui hanno tratto ispirazione altri grandi artisti. Inoltre in questo album si possono trovare anche 3 inediti: Spanish Sea, Alone e Struck By Lightning; oltre a 14 grandi classici rimasterizzati, andando in ordine decrescente di popolarità (con Hold the line, Georgy Porgy, Rosanna e Africa per ultime). “Non ci siamo limitati a masterizzare i dischi. In alcuni casi abbiamo anche cambiato lievemente il mix” ha spiegato Steve Porcaro, il tastierista della band californiana e in effetti si sente, soprattutto in Hold the line e Georgy Porgy.

Umberto Colombi

The Good, the Bad & the Queen dei The Good, the Bad & the Queen (Parlophone, 2007): Primo e unico album creato dal “supergruppo” formato da Damon Albarn (Blur, Gorillaz), Paul Simonon (The Clash), Simon Tong (Gorillaz, The Verve),.

Blue Lines dei Massive Attack (Virgin, 1991): Primo album del complesso di artisti appartenenti al sound system “The Wild Bunch”, da allora riunitisi sotto il nome di Massive Attack. Il disco getta le basi per il genere “trip hop” che unisce elettronica ambient, soul, R&B, reggae e dub. L’origine di ciò a cui oggi ci riferiamo come Bristol Sound.

Maria Chiara Fonda

Foxtrot dei Genesis (1972): Scoperto per caso tra i vinili di mio papà, Foxtrot è il quarto album dei Genesis, in cui suona ancora la vecchia formazione con Peter Gabriel. Indicato da Rolling Stone come uno dei 50 album progressive migliore di tutti i tempi, varrebbe l’ascolto anche solo per l’ultima traccia dell’album: Supper’s ready, una suite di 23 minuti divisa in 7 atti. Pieno di riferimenti mitologici e biblici, filastrocche e giochi di parole, il brano è una sorta di poema epico un po’ psichedelico, il viaggio di due innamorati attraverso l’eterna lotta tra bene e male. Sebbene non sia di immediata interpretazione, l’ascolto è un viaggio affascinante tra simboli e mistero.

Giulia Laregina

Super Taranta! dei Gogol Bordello (Side One Dummy, 2007): Musicalmente parlando, il pop-punk è stato uno dei miei primi grandi amori. Aiuta il fatto di essere stata adolescente a metà anni 2000, quando gruppi come i vari Green Day e Blink-182 era un must per qualsiasi ragazzino pesudo-alternativo di provincia. Il mio entusiasmo per il pop-punk si è più o meno esaurito con la fine del liceo, non prima però di avermi fatto scoprire un mondo. Gli unici due gruppi punk che tuttora ascolto potrebbero essere considerati lontani cugini, perché la formula che propongono è la stessa: punk rock meets musica popolare. L’Irlanda ha i The Pogues, l’Europe dell’Est ha i Gogol Bordello. Il mio album del mese è appunto la quarta fatica discografica degli autoplacamatisi eroi del gypsy punk. I loro album sono musicalmente e liricalmente tutti molto simili fra loro, ma questo è sempre stato uno dei miei preferiti, senza un motivo particolare in realtà. è un album energico, stordente, stridente, un po’ “cazzone”, e soprattutto divertente – come lo sono tutti i loro album, appunto. In realtà più che ascoltare un loro album dovreste vederli dal vivo, perché i loro concerti sono un’esperienza quasi mistica. Da cui non è garantito uscire vivi, ma tant’è.

Stefano Marmondi

The Infamous dei Mobb Deep: pilastro del rap newyorkese. Canzoni con basi semplici per chi ama la semplicità e lo-fi. Testi sono diretti e le rime hanno una cadenza che ti entra in testa. Ci metti poco ad agitare la mano perché sei catturato dal loro flow. Tanto per chiarirci, il film 8 mile inizia e finisce con una loro canzone, B Rabbit vince il contest con una loro base. Ne vale l’ ascolto se siete stanchi della trap e volete rilassarvi lo stesso, un po’ di hip hop vecchia scuola non fa ma male

Guglielmo Motta

Rimmel di Francesco De Gregori: capolavoro. Mi è capitato poco tempo fa di riascoltare questo disco, pubblicato nel lontano 1975 e, beh che dire, è davvero fantastico. De Gregori è un genio della musica italiana, un vero cantastorie, il Bob Dylan nostrano. Rimmel, l’omonimo brano che dà il titolo all’album. La splendida Pezzi di vetro, che riesce a commuovermi tutte le volte che sento “è quattro giorni che ti amo, ti prego non andare via, non lasciarmi ferito”. Le storie di ieri, con una bellissima descrizione del fascismo, ieri e oggi. Buonanotte fiorellino, che è tutt’ora tra le canzoni d’amore più belle di tutti i tempi. Un capolavoro di disco. Da ascoltare e riascoltare.

Fabiano Radesca

Quah di Jorma Kaukonen (Grunt Records 1974): Primo album da solista per l’ex chitarrista dei Jefferson Airplane e degli Hot Tuna, Jorma Kaukonen. Quah, una sorta di disco “perduto”, dimostra uno stile picking straordinariamente intricato, voci rilassate e uno stravagante songwriting pop di altissimo livello, e ha davvero la pretesa di essere uno dei migliori album blues acustici degli anni ’70. Il suono è basato essenzialmente dall’estrosità della chitarra acustica supportato in alcuni brani da strumenti ad arco. La chitarra riverberata di Genesis (traccia esemplare del disco) e la voce fluida ti portano via in un posto lontano, nostalgico: un bellissimo tributo al passato. Song For The North Star è un altro pop-blues alla stessa stregua, e conferma l’istintività di Kaukonen per una melodia deliziosa ma semplice. Ma è sui numeri di puro blues, in cui gli arrangiamenti di chitarra sorprendentemente complessi vengono alla ribalta, che siamo invitati ad apprezzare il suo vero genio. Il suono della chitarra acustica è a dir poco rivoluzionario per la metà degli anni ’70. Kaukonen ha goduto di buona fama durante la sua attività (suonare a Woodstock è probabilmente qualcosa da invidiare), purtroppo però la sua carriera da solista è stata tristemente sottovalutata. Ci si potrebbe chiedere perché un album di questo tipo, al momento del rilascio sia affondato senza lasciare traccia. D’altro canto forse è meglio che sia rimasto sottoterra, perché questo rende ancora più gratificante la sua riscoperta.

Fabio Sorrenti

Cosmostronic di Cosmo (2018): il genere dell’artista eporediese è un mix tra l’elettronica da club e l’indie: basi ricercatissime e coinvolgenti si mischiano a testi maturi (Cosmo ha già due figli) su temi quali la malattia o l’immigrazione, che invitano alla riflessione. Consigliato a chiunque voglia farsi trascinare dal sound e dal ritmo, senza però rinunciare a qualche messaggio di crescita in sottofondo. L’artista suonerà a Milano il mese prossimo.

Gaia Epicoco

Primal Incinerators Of Moral Matrix dei Tetragrammacide (Iron Bonehead, 2017): E’ un album, questo, decisamente aggressivo. I Tetragrammacide vengono dall’India, da Calcutta, una terra piena di contraddizioni e di contrasti. La loro musica rispecchia in parte quella difficoltà, ma non si ferma qui. La loro è una musica che non è musica, è rumore, rumore distorto, urlato, graffiante e doloroso. E un po’ terrificante. Eppure nulla sembra essere lasciato al caso e anche quando sembra che i tre stiano per perdere il controllo di quel caotico miscuglio dei suoni, ecco che tutto a un tratto se ne coglie l’armonia. Il primo brano da me ascoltato e che mi ha avvicinata alla loro musica è stata la martellante Cyberserking Strategic Kalpa-Terminator (Advanced Acausality Increment Mechanism), che mi ha trascinata con sè e con la sua violenza un po’ folle. Consiglio di ascoltarlo più di una volta.


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copertina

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