La letteratura è un cortile: l’amarcord di Walter Mauro

Per i nostalgici, per i celebratori delle stranezze, per gli scrittori, i pittori, i cineasti, i musicisti, i curiosi, i lettori, gli studenti, i professori…
La letteratura è un cortile è il testamento morale di Walter Mauro. Come poterlo definire, altrimenti?

Walter Mauro: critico, scrittore, musicista jazz, appassionato di calcio, insegnante venerato. Memorabile in ognuno dei campi nel quale ha proferito parola. Nato nel 1925, attraversa tutto il secolo breve con lo sguardo fiero che si conviene a un intellettuale del suo calibro. Muore nel 2012.

Lo sguardo sempre dritto davanti a sé si era ripiegato su se stesso appena un anno prima, nel 2011, quando decide di radunare la sua vita con i protagonisti che l’avevano animata, in un cortile. Allora sceglie i ricordi, come per ricostruire il destino, come per capire ciò che si è diventati, per spiegarsi come si diventa ciò che si è.

Walter Mauro comincia dai suoi genitori: un padre ufficiale pilota, antifascista deciso, decisamente innamorato di Wagner e D’Annunzio; una madre pianista.  Nasce sotto il segno della contraddizione: un film ispirato a lui la inscenerà tutta, chiamandolo Gualtiero di giorno, quando è un impeccabile professore di latino e greco, e Walter di notte, mentre frequenta night club, assorto nei profumi femminili e nella musica.

Ungaretti è il suo professore, e impiega sei mesi di lezione per spiegare La sera del dì di festa  di Leopardi.

E ancora, Walter Mauro amico di Piero Piccioni. Con lui e altri amici, nel 1949, suona all’aeroporto di Ciampino per accogliere Louis Armstrong appena arrivato in Italia. E con lui e quegli altri amici e Louis Armstrong attraversa via Veneto su un carro, suonando pazzamente: come fosse il Carnevale, come fosse la Louisiana.

Incontra Cesare Pavese due mesi prima della notte assassina, quella in cui Cesare amò la morte. Walter Mauro conosce quello scrittore in grado di mettere la dinamite sotto il Neorealismo: Calvino. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta vive in Francia, stanando Raimond Queneau, Sartre, Simone de Beauvoire nei templi dell’esistenzialismo, nei vari Cafè, seguendoli fino alle loro case per discutere di libertà e totalitarismo, di esistenzialismo e marxismo. Ma ce l’avevano alla fine un punto di incontro?
Conosce Miles Davis, prima della droga, prima della musica più commerciale, prima delle esibizioni disastrose: ai tempi dell’amore con Juliette Gréco, la donna che lo calmava e eccitava insieme.

Mauro intervista Pier Paolo Pasolini appena quattro giorni prima della sua morte: “le mie poesie sono le parole di un morto che parla ai vivi”, qualcosa del genere gli disse allora. Fu quello l’ultimo incontro dei due, ma non era stato il primo. L’autore con Pasolini, Moravia e Morante era pure stato in India. E l’aveva visto così quel Pasolini in balia dei momenti di furia erotica, attratto dal sudicio e dalla miseria, l’aveva visto sedotto da una vita che corre al limite.

Nel cortile, Mauro richiama anche Moravia. Lo aveva conosciuto abbastanza per dire che non era il suo il carattere difficile, ma Elsa Morante a essere una donna impossibile. E aveva conosciuto Elsa al punto da ammettere che la sua sola presenza a una tavolata era già un’opera letteraria; lei che diceva le cose come se fossero già racconti scritti, e scritti nel migliore dei modi. Parola elegante e ferma, la sua.

E delle ore trascorse nei caffè di Via Veneto con Sinisgalli, Walter Mauro ricorda le sue tasche sempre piene di fogli, quasi per scongiurare il rischio di dimenticarsi d’essere poeta, lui che era sempre stato un matematico.

Poi passava a Trastevere, si fermava a casa di Rafael Alberti e là già c’erano Pablo Neruda, Moravia, Pablo Picasso, Carlo Levi, il flamenco, ancora musica…

Conosce Sibilla Aleramo, ma solo grazie a Quasimodo, con cui Mauro aveva fatto un divertente viaggio in Urss. E di quando Quasimodo vince il Nobel, Walter Mauro ricorda nitidamente la rabbia di Ungaretti: era con lui quel giorno.

Trova il tempo anche di girare l’Europa con l’orchestra di Duke Ellington: si ferma solo ogni tanto e solo per parlare con James Baldwin, Philip Roth (così diverso dall’uomo che i suoi romanzi lasciavano fantasticare) e García Márquez.

Gli era anche capitato di accompagnare Carlo Levi dall’oculista, mentre gli raccontava della collezione di conchiglie, di ossi cileni di Pablo Neruda, la più grande al mondo.

Non ebbe Walter Mauro il dono dell’ubiquità; ma sicuramente ebbe quello di trasformare le forze centrifughe della vita in una, unica esperienza centripeta: ad ognuno di questi miti Walter Mauro, in quest’opera, non dedica più di due pagine. E pensare che per noi è già difficile vederle riunite in unico libro tutte queste leggende, vedere che si parlano e si odiano ogni tanto. Due pagine ciascuno e nessuno di loro perde fascino.

Ad un certo punto, Walter Mauro racconta qualcosa anche di Cesare Zavattini.
Abitava a Roma, e per tutta la vita chiese la stessa cosa ad ogni artista che gli capitò a tiro: un quadretto di otto centimetri per dieci. Piccolissimi dipinti con cui aveva riempito pareti intere: una sola opera d’arte di millecinquecento opere d’arte. Lo rimproveravano, quei pittori, gli dicevano che non aveva idea di quale difficoltà fosse dipingere entro quelle dimensioni. Eppure Zavattini stava dando loro la possibilità di dimostrarsi abili.

Ecco, alla fine, una definizione per il libro di Mauro, e ancora una volta ha fatto tutto lui, ce l’ha suggerita e descritta. È questa pinacoteca di ritratti precisi, piccoli e magnifici. Sono le poche righe che fanno una eco potente. È disordine che si organizza in arte.


 

FONTI

Fonte 1: Walter Mauro, La letteratura è un cortilei, Roma, Giulio Perrone editore, 2011


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