La lettera che non invierò

Scrivo questa lettera che non invierò, allo specifico scopo di non inviarla, per lo stesso motivo per cui qualcuno muore prima di dire quella cosa importante che avrebbe sempre voluto dire.
Perché temo di essere delusa.
Temo che, se la inviassi, non avrei la risposta che desidero; oppure l’avrei, e di botto non mi piacerebbe più.
E le persone che lasciano dietro di sé in eredità un silenzio denso di rimpianti lo fanno perché è molto più facile apprezzare una cosa bella che non ti aspetti piuttosto che dover lottare per una cosa che ti aspetti essere bella – ma che forse non lo sarà. È chiara la differenza? Sta tutto in quel “ma che forse non lo sarà”.
E allora tutti gli amici che ci lasciamo alle spalle per un dissapore idiota, che il tempo ridimensiona come tale, non li cercheremo più, temendo di scoprirli ancora attaccati a quella particolare versione di un’idiozia tutto sommato trascurabile, o peggio, completamente diversi da quell’immagine dorata che conservavamo gelosamente in un cofanetto pieno di rimpianto e formaldeide.
Allora tutti i primi amori resteranno per sempre immersi in un alone di sgradevole disagio imbarazzato, tutti i parenti con cui abbiamo smesso di parlare rimarranno a distanza di un episodio scandaloso di cui non c’interessa più, e le cose che avremmo voluto dire le deglutiamo giorno per giorno in fondo all’anima fino a sviluppare una strana forma di mutismo e sordità.
Ecco cosa vorrei, ma non vorrei, dire: mi dispiace che di tanti anni molto belli resti soltanto una pozzanghera come quelle che si lasciano dietro i pupazzi di neve quando in febbraio si sciolgono. Avrei potuto comportarmi diversamente e forse adesso parleremmo ancora, e molto, fino a notte fonda. Ho fatto quello che credevo giusto in quel momento, quand’ero ferita e confusa, e a questo devo aggrapparmi quando alle volte sento nostalgia. Il resto del tempo la nostra interruzione è come un semaforo rosso, un vicolo cieco, un posto in cui non ha comunque senso spingersi.
Ecco cosa vorrei, ma non vorrei, dire: scusami se non sono stata alla tua altezza, e continuo a non esserlo adesso. Scusa se ho capito tardi di non poterti fare promesse che non ero e non sono sufficientemente forte da mantenere. Mi mancano i bei ricordi, ne conservo molti, e per mesi sei stata meravigliosa poesia: grazie di tutto. E scusami una seconda volta, perché nonostante questo non sarei capace di riprendere da dove ci eravamo fermate. Mi dispiace tanto.
Ecco cosa vorrei, ma non vorrei, dire: ho sbagliato tutto e mi dispiace. Il rischio che io ho corso non è stato nulla in confronto al tuo, e quando tutto è andato in pezzi tu ti sei fatto più male. Quel che ci legava mi manca, ma so che era a un tempo la fune che stringevo in mano affinché mi facesse da sostegno e il cappio attorno al tuo collo, la trappola per i mostri che mi teneva al sicuro e la tagliola attorno alla tua zampa (che hai dovuto stracciarti a morsi per poterti liberare). Hai fatto bene ad andartene senza una parola.
E tutte queste cose non solo non le dico per paura di una delusione di sorta, ma anche: perché ho paura di venire esaudita.
Ho paura che mi si risponda: dispiace anche a me. I presupposti su cui ora vivi, e che ti fanno dormire la notte, sono sbagliati. Sei sporca di una colpa che non si cancella.
E quindi questa è la lettera che avrei voluto scrivere, ma che dopotutto non manderò.

 

 

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