Psicoanalisi e teatro: rapporto attore-personaggio

Studi recenti di psicologia teatrale hanno raggiunto risultati inaspettati: la psicoanalisi ha analizzato il profondo rapporto tra l’attore e il suo personaggio, confermando le teorie esposte da Stanislavskij, regista, attore, teorico del teatro, nato nel 1863 a Mosca. La scienza si è posta a servizio dell’arte, costituendo così un binomio indissolubile.

Stanislavskij, interrogandosi sul rapporto tra attore e personaggio, sostiene, rispetto a Diderot, una completa identificazione delle due entità. Di conseguenza, durante una rappresentazione scenica, l’attore non deve simulare un’emozione, ma deve riprodurla naturalmente, lasciandosi trasportare dai gesti e dal corpo del personaggio che agisce. Fondamentale, durante il processo di creazione del personaggio è la “reviviscenza”: l’attore deve fare appello ad eventi vissuti in prima persona o ad emozioni provate, adattandole al personaggio. Deve quindi, contemporaneamente, studiare le fattezze del personaggio e scavare nella propria interiorità. Ciò conduce alla personificazione, l’assoluta identificazione, la costruzione fisica del personaggio e la sua adattabilità trasversale alla scena.

La psicanalisi e, in particolare, la neuroscienza, ha aperto gli orizzonti al teatro. Lo studio interdisciplinare si sviluppa partendo dalla scoperta dei neuroni specchio. Questi sono neuroni dell’area premotoria del cervello che si attivano nel momento in cui un uomo osserva un corpo agire. Essi permettono l’attivazione di un meccanismo, la “simulazione incarnata”: l’osservazione del movimento induce nel cervello dell’osservatore l’attivazione dei medesimi circuiti nervosi designati a controllarne l’esecuzione, producendo una simulazione automatica dello stesso movimento. Questa forma di comunicazione non verbale permette all’uomo di interiorizzare azioni, tramite mappe che costituiranno una risorsa per tutta la sua vita.

I neuroni specchio sono coinvolti nel processo teatrale. Durante il processo di creazione del personaggio, l’attore, dopo aver analizzato il copione, studia le caratteristiche del personaggio che andrà ad interpretare. Nel momento in cui l’attore riesce a creare fisicamente il suo personaggio e, tramite l’immaginazione, vederlo agire, quest’ultimo si trasforma da carta a “vita”: l’attore, trovandosi di fronte a un corpo in azione, attiva i propri neuroni specchio, instaurando una comunicazione, proprio come fosse un dialogo tra uomini. L’empatia, atteggiamento legato ai neuroni specchio, costituisce la base di questo rapporto: è stato scientificamente dimostrato che essa può generarsi anche tra entità non propriamente esistenti. L’attore attinge dalle proprie mappe (ricavate dall’esperienza individuale sin dall’infanzia), ritrovando in sé sentimenti ed emozioni da regalare al personaggio. Di conseguenza, è semplice comprendere come due attori diversi possano originare due personaggi distinti, seppur partendo da una medesima indicazione registica.

Le scoperte psicanalitiche non si fermano al rapporto tra attore e personaggio e analizzano la tripartizione dell’azione scenica. Il pubblico, terza entità coinvolta durante uno spettacolo, subisce il processo della “simulazione incarnata”. La corporeità della scena, tramite i neuroni specchio, viene riprodotta e simulata: esso percepisce, prova, ciò che sta vedendo agire, filtrando grazie alle mappe. Il palcoscenico diventa così uno “spazio transizionale”, un luogo d’incontro tra le tre identità distinte, che interagiscono tra loro al livello profondo della psiche.

 

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