MEMORIE DEL PRIMO AMORE

“Andiamo là!”

Si avviarono per mano verso ponte sant’Angelo a passi svelti, quasi urgenti, quelli di lui più lunghi di quelli di lei, costringendola a restare un po’ indietro con il braccio allungato in avanti per non lasciargli la mano. Erano da poco fidanzati, anzi ufficialmente non lo erano affatto, ma era una condizione ormai quasi scontata. Era trascorso troppo poco tempo perché potessero dirsi fidanzati o innamorati, ma ne era trascorso abbastanza perché germorgliasse in loro quell’eccitazione giovanile e vitale che pervade i ragazzi non quando cominciano ad innamorarsi, ma quando si sentono in una posizione nuova, prima mai provata, nei confronti di un’altra persona: quando percepiscono di stare compiendo le prime reali esperienze con l’altro sesso. Sono esperienze nuove che allo stesso tempo pare di conoscere già in parte, poiché in adolescenza molto tempo si spende sognando e desiderando amori incredibili, eclatanti, platonici, che assumono i più assurdi contorni; da lì è un attimo ad attribuire alla prima occasione utile le sembianze di quella tanto a lungo desiderata.
Lei camminava a saltelli seguendolo, con la faccia rossa di freddo, contentezza ed eccitazione. Il ponte che si stagliava sulla Roma gelata di febbraio possedeva certo di per sé un indiscutibile fascino universale, ma essendo la bellezza costruita da chi guarda, non sarebbe stato senz’altro così bello se non fosse stato adibito a scenografia del suo amore; e a lei sembrava proprio che stesse lì da tempo soltanto per quel momento lì, per svolgere la funzione di cornice della sua straordinaria situazione.

“Sali qua” le disse lui fermandola in mezzo al ponte e aiutandola a mettersi seduta sul blocco di marmo accanto una delle statue. Lei salì senza grande agilità, ma con una certa goffaggine che, lei non lo sapeva, era espressione di una curiosa civetteria femminile: questa si traduceva in gesti e movimenti molli, di debolezza, che richiedevano l’aiuto di lui.
Stettero così per un po’, a chiacchierare, lei che lo guardava dall’alto cingendogli il busto con le gambe, ma sempre con attenta discrezione, non sapendo bene se fosse così che facessero i fidanzati.
“Ma lo sai che è successo ieri…” esordì lui a un tratto, facendosi improvvisamente rosso anche lui e abbozzando un risolino imbarazzato, “no vabbè non te lo dico, mi vergogno…”
Si vedeva che voleva dirlo invece, ma che aveva bisogno di un incoraggiamento.
“Eh no, ora me lo dici!”
Non si fece pregare.
“Ieri a lavoro” – era un cameriere – “a un certo punto è entrata tua sorella… Non so come ma mi sembrava te… Allora il mio collega ha fatto degli apprezzamenti e io gli ho detto…”
Si mise a ridere e indietreggiò di qualche passo, gli occhi vivaci di vergogna.
“Che?”
“Gli ho detto di non guardarla, che quella era la ragazza mia…” Rise, si girò dall’altra parte e si portò anche una mano sul viso, non sapendo bene come gestire lo sforzo che gli costava dirle quell’episodio. Lei sorrise di sincera tenerezza per la vergogna di lui, e il cuore le palpitò di eccitazione. Non aspettava altro che una rivelazione del genere. Scese con un salto dalla balaustra e, per dargli coraggio, gli cinse le braccia al collo con la testa rovesciata in su in un atteggiamento che risultava piuttoso infantile, essendo lei di gran lunga più bassa di lui. Parlò sorridendo, con tono di bonaria presa in giro.
“E perché ti vergogni? Pensi che non mi considero la tua ragazza?”
Lui sorrise ancora e non disse niente, godendosi quell’abbraccio. La verità è che entrambi desideravano che il loro fidanzamento fosse dato per ufficiale, entrambi volevano che fosse detto a parole. Ma naturalmente lei non l’avrebbe mai fatto: col suo carattere riservato, che avesse il coraggio di chiedergli di essere il suo fidanzato era fuori discussione. E poi queste cose non si chiedevano più ormai, era da bambini, anche se loro certamente adulti non erano. Ma ora che lui aveva fatto il primo passo, poteva esporsi anche lei.
“Allora facciamo così” affermò con decisa solennità, “facciamo che io da oggi mi considero la tua fidanzata.”
Le parole non erano scelte a caso: non voleva semplicemente ufficializzare il loro fidanzamento, voleva ufficializzare il giorno del loro fidanzamento. Ci teneva e, pur non sapendolo, il motivo per cui ci teneva tanto era molto meno infantile di quanto sembrasse, e infinitamente più profondo e delicato. Non le interessava, infatti, ufficializzare quell’8 febbraio perché si potesse poi festeggiare l’8 marzo, l’8 aprile eccetera. La sua era un’emozione straripante, traboccante, senza contegno nel suo piccolo io, che rigurgitava il suo effetto nel rossore, la vividezza degli occhi, il sorriso incontenuto, era un’emozione nuova nella sua potenza trascinatrice, era un’emozione che, col senno di poi, si potrebbe dire: era vera? Quel ragazzo era entrato nella sua vita da nemmeno un mese, non sapeva niente di lui, non gli aveva ancora parlato di sé, non si era instaurato nessun vero legame, nessun bene, niente, se non un lievissimo principio d’affetto, come una briciola, dal sapore ancora vago e incerto.
Lei, questo, forse lo capiva o forse no, ma di certo non aveva intenzione di pensarci. Non aveva intenzione di pensarci, proprio perché sapeva (e questo lo sapeva davvero) che l’emozione, quando viene erosa dal pensiero e dalla riflessione, si assottiglia e si indebolisce fino ad autodistruggersi. Se ci avesse pensato, forse avrebbe capito che in fondo quell’emozione poteva essere un inganno, una proiezione del desiderio che le arrovellava il cuore da diverso tempo ma non il suo compimento. Ma importava poi tanto? Non a lei. L’unica cosa che sapeva (e anche questo lo sapeva davvero) era che quell’emozione andava immortalata, formalizzata, resa eterna nella memoria, custodita gelosamente come una fotografia da andare a ricercare nel suo bagaglio emozionale quando le venisse voglia. E l’unico modo per farlo era agire in fretta: quelle parole, da oggi mi considero la tua ragazza, non erano soltanto quelle parole, ma erano il preludio di un nuovo tassello aggiunto alla propria personale storia emotiva, una consacrazione, un rito che sanciva l’ingresso e la permanenza definitiva di quella emozione nella sua memoria. Era vera? Era falsa? Molte cose sarebbero potute accadere in seguito e molte cose in effetti accaddero. Quella persona non fu per lei l’amore che sperava. E con questo? Sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, ma niente avrebbe mutato quel ricordo, la cui essenza sarebbe rimasta sempre tale e quale a quella di una fotografia. Quell’emozione era stata vissuta ed era stata perfetta nella sua ingenuità, nella sua freschezza, ma soprattutto nella sua fatale e insanabile irripetibilità: dove per irripetibile non si intende insuperabile, bensì  unico, semplicemente.
Sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa e ne accaddero davvero moltissime, ma ogni qualvolta nella sua vita le circostanze le avessero rimembrato il primo amore, lei avrebbe pescato dai suoi ricordi quell’immagine. Una ragazza in piedi sul ponte sant’Angelo, con il cappuccio del giubbotto alzato sulla testa, sia per ripararsi dal freddo sia per nascondere a sguardi indiscreti i baci brucianti di delicatezza che le dava il suo fidanzato, dicendole di smetterla di vergognarsi e continuando a baciarla sotto il sole gelato di febbraio, mai stato tanto caldo, sullo sfondo di Roma, mai stata tanto bella.

 


 

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