Michael Collins, astronauta dimenticato dell’Apollo 11

Chi è Michael Collins? Acclamatori dei traguardi spaziali raggiunti dall’uomo o sostenitori di teorie complottiste: tutti conoscono Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sul nostro satellite naturale. I più ricorderanno anche che a saltellare sul suolo lunare in assenza di gravità c’era un altro astronauta, magari senza conoscerne volto e nome: per onor di cronaca, si trattava di Edwin Buzz Aldrin.

Erano proprio loro due a essere citati nell’elogio stupefatto che Dino Buzzati scrisse sul Corriere della Sera a seguito della conquista della Luna, avvenuta il 20 luglio 1969:

[…] sullo schermo dietro lo speaker, è comparsa una immagine nuova […] tutti di colpo hanno capito, tutti, anche gli scettici, sono stati presi da uno sgomento sconosciuto. Si è avuta la sensazione di essere passati oltre una porta fatale e proibita, di avere varcato una delle ultime frontiere: del mondo? della conoscenza? della vita? […] Armstrong e Aldrin ci avevano portati in una sorta di aldilà che vedevamo coi nostri occhi e in cui tuttavia la nostra mente si smarriva.

Il che sarebbe sufficiente, a patto di essere consci di ignorare il fondamentale contributo alla felice riuscita dell’impresa di un ulteriore astronauta: Michael Collins, appunto.

Tutti e tre nati nel 1930, tutti e tre veterani al loro secondo volo spaziale, ma solo uno destinato a agire nell’ombra, letteralmente. Sì, perché mentre Neil e Buzz piantavano la bandiera americana nella roccia del Mare della Tranquillità, Michael restava per più di venti ore sospeso nell’orbita lunare a bordo del Modulo di Comando, che, non potendosi fermare, lo condusse dietro il satellite, nell’oscurità del cielo, senza più la possibilità di comunicare con la base spaziale di Houston.

Columbia, Modulo di Comando dell’Apollo 11.

Un uomo di 1,80 m costretto in una struttura conoidale di 3,5 m di altezza e 4 m di diametro, per un totale di 6 m³ abitabili ritagliati tra motori, serbatoi, display, controlli e postazioni di pilotaggio per tutto l’equipaggio. Infatti il compito di Collins era quello di riportare a casa sani e salvi Armstrong e Aldrin, e per farlo era necessario che applicasse tutta la sua organizzazione, il suo sangue freddo e il suo know-how per riuscire a monitorare i vari sistemi e guidare il Modulo di Comando fino al punto favorevole al riaggancio col Modulo Lunare.

E Michael Collins era l’uomo giusto per riuscire nell’impresa. Nato al numero 16 di via Tevere a Roma, dove il padre era stanziato in qualità di Generale Maggiore dell’Esercito presso l’ambasciata statunitense, una volta tornato in America seguì le orme di famiglia arruolandosi all’Accademia Militare di West Point, a New York. Intraprese poi la carriera di aviatore, collezionando circa 5000 ore di volo e sviluppando un’eccellente capacità di autocontrollo e propensione per la solitudine; infatti a chi gli chiedeva se l’isolamento lo avesse turbato, ricordava: “ho volato da solo su aeroplani per diciassette anni, l’idea di essere da solo su un veicolo non mi allarma” e anche “nel Columbia avevo una casa felice. Quella costruzione è come una cattedrale in miniatura”.

Meticolosità, pazienza e amore per la solitudine che Michael coltivava in uno dei suoi hobbies preferiti, la pesca, gli fruttarono un gran successo professionale. Non bisogna dimenticare infatti che Collins, ispirato dall’impresa di John Glenn (che nel 1962 fu il primo Statunitense a volare in orbita intorno alla Terra), era già riuscito a farsi arruolare dalla NASA e a essere selezionato nel 1966 per la missione Gemini 10.

Foto ufficiale dell’equipaggio dell’Apollo 11: da sinistra Neil A. Armstrong, comandante; Michael Collins, pilota del modulo di comando; Edwin E. Aldrin Jr., pilota del modulo lunare.

Nel suo primo lancio Michael aveva sperimentato una camminata spaziale; durante la missione Apollo 11 dovette invece gestire una situazione ben più delicata. Che la ripartenza del Modulo Lunare dal satellite e il riaggancio col Modulo di Comando non riuscissero era una possibilità concreta: persino i tecnici della NASA si affidavano alla speranza e il Presidente Nixon aveva preparato un discorso di commiato. Collins avrebbe potuto passare alla storia come il sopravvissuto e riportare con sé sulla Terra solo il peso della tragedia.

Invece la fortuna arrise agli audaci: la missione fu un successo e Collins non ne rimase segnato. Non dovette nemmeno vivere i traumi a cui andarono incontro Armstrong e Aldrin al loro rientro: entrambi divorziati, uno si blindò nella sua privacy, l’altro cadde nel vortice della depressione e dell’alcolismo. Purtroppo però, come dicevamo, nemmeno rimase impresso nella memoria dei posteri di tutto il mondo, nonostante sia stato il primo uomo a vedere di persona la faccia nascosta della Luna, separato da ogni forma di vita conosciuta.

Schema dei moduli di cui si costituiva la navicella spaziale.

Collins comunque non ha mai nutrito risentimento verso questa sua sorte beffarda; anzi dichiarò a più riprese di essersi sempre sentito parte di quanto succedeva sulla superficie lunare, dando prova di un grande spirito di squadra. Di fatto fu proprio lui a ideare gran parte del logo della missione, l’aquila (Eagle era il soprannome del Modulo Lunare) che plana sulla Luna reggendo l’ulivo: una conquista pacifica, per mano non di eroi ma di professionisti chiamati a fare del loro meglio, anche quando ciò comporta un sacrificio.

Emblema della missione, privo dei nomi dei singoli partecipanti per dare il senso della coralità dell’impresa.

 

FONTI

Jsc.nasa

Biography

Theguardian

Space

Nasa

Corriere

Hq.nasa

Farmer, G., Hamblin, D.J. (1970), First on the moon : a voyage with Neil Armstrong, Michael Collins, Edwin E. Aldrin Jr. with photograph, Boston: Little, Brown and Company.

CREDITS

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