IL RITRATTO DI DORIAN GRAY: AI CONFINI TRA ETICA ED ESTETICA

Non è un segreto che lo scrittore Oscar Wilde, durante la sua vita, abbia nutrito verso le forme d’arte un profondo e accorto interesse, che si traduce, nelle sue opere letterarie, in specifiche soluzioni linguistiche e tematiche. Probabilmente la sintesi più alta dell’intreccio di arte e letteratura, etica ed estetica possiamo ritrovarla in uno dei romanzi più celebri, ovvero Il ritratto di Dorian Gray.

Prima di analizzare questi elementi, è necessario ricostruire un breve quadro generale del pensiero estetico wildiano. Dal greco aisthesis, “sensazione”, l’estetica indica (se vogliamo semplificare) una riflessione filosofica sulle opere d’arte. Atteggiamento tipicamente wildiano è quello di attribuire valore all’opera d’arte in base alla sua bellezza, all’apparenza, al suo essere sostanzialmente fine a sé stessa (art for art’s sake) e conseguentemente tesa all’appagare i sensi piuttosto che a trasmettere un messaggio.  Questa concezione, piuttosto fortunata ai tempi di Wilde, è molto ben esemplificata dal personaggio di Lord Henry del Ritratto, che nei suoi dialoghi col protagonista rivendicherà l’importanza, nella vita, della ricerca di forme edonistiche sempre più alte. Del resto, alla base del pensiero estetico di Wilde c’è un’arte che produce la vita stessa e non il contrario: in quest’ottica, l’arte non si configura più come imitazione della vita, ma come il suo stesso fondamento.

Il ritratto di Dorian Gray è la massima espressione di tali argomentazioni, proprio perché nella trama stessa del romanzo l’arte, e in questo caso un quadro, svolge un ruolo decisivo. Un quadro che rappresenta il protagonista – giovane e di straordinaria bellezza – ma con una particolarità: quella di modificarsi nel tempo evidenziando la decadenza fisica e morale del protagonista stesso, facendosi insomma specchio della sua coscienza. Dorian Gray nasconderà in soffitta il quadro, che ha ormai assunto forme mostruose, e si darà a una vita di lussi e piaceri, finché un giorno, tormentato dall’angoscia che la vista del quadro gli procura, lacererà il quadro con un coltello, uccidendo, in realtà, nient’altro che sé stesso.

La morte di Dorian non può che essere la naturale conseguenza di un crimine che, nella concezione estetica wildiana e non solo, è imperdonabile: quello di avere distrutto un’opera d’arte di estrema bellezza. Il quadro, da oggetto di bellezza fine a sé stesso quale era, diviene una fredda testimonianza di qualcosa di vile e impuro, a dimostrazione del fatto che l’esperienza estetica non sempre si persegue correttamente: da un lato Dorian è affascinato dalla bellezza dell’alta cultura (abbiamo già citato Lord Henry, a cui sono dedicati ampi scorci nel romanzo e il quale eserciterà una fortissima influenza sul protagonista), dall’altra si dà a uno stile di vita totalmente sregolato che accelera sempre più la sua corruzione morale. Ed è qui che si avverte il definitivo sfondamento del confine tra etica ed estetica: la distruzione del valore estetico (il quadro in tutta la sua perfezione) non è forse l’esito di una corruzione tutta interiore? Insomma, si tratta certamente di un’anomalia nel tradizionale rapporto tra etica ed estetica, le quali, in questo caso, si sovrappongono al punto da risultare indistinguibili. Ma del resto, scriveva Wilde:

Quel che c’è di anormale nella vita è in normale rapporto con l’arte. È la sola cosa nella vita che sia in normale rapporto con l’arte.

 



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