Quando il detenuto n°112

Quando il detenuto n°112 parlava al secondino, gli riempiva le orecchie di colorate storie di speranza e di libertà. E lo faceva con sempre in bocca quel sorriso luminoso, che sessant’anni di prigione non erano stati capaci di strappargli via.
Quando il secondino ascoltava il detenuto n°112 parlare, rideva così forte delle sue storie che per poco il cappello non gli volava via. E lo faceva con sempre in bocca quelle unghie che aveva il vizio di mangiarsi, e a volte rideva così di gusto che l’unghia gli rimaneva incastrata tra i denti, o così forte che se la strappava senza volerlo, e allora alla risata seguivano un urlo di dolore e una bestemmia.
Quando il detenuto n°112 era stato arrestato, a diciotto anni, era stato condannato per un crimine orrendo, mostruoso, impronunciabile. No, in effetti esisteva un modo per pronunciarlo: ergastolo. Ma il detenuto n°112 aveva visto troppo poco del mondo di fuori, prima di essere incarcerato, per conoscerlo a fondo e scoprire che a volte è peggiore della galera. Lo conosceva soltanto a spezzoni, frammentato dalle sbarre della finestra della sua cella, e la bocca gli si riempiva di quel sorriso luminoso ogni volta che vedeva il sole tramontare oltre la vallata.
Quando il detenuto n°112 parlava al secondino, gli rivelava tutte le cose che avrebbe voluto fare una volta uscito da quel buco marcio. Sogni modesti, per lo più, ma per lui non faceva differenza: in fondo, l’importante era che lo rendessero felice, no?
«Mi piacerebbe», diceva, «Vedere il sole che tramonta al di là della collina. Vederlo per davvero, per intero, non spezzettato dalle sbarre della mia cella.»
Quando il secondino ascoltava il detenuto n°112 parlare, dopo una sonora risata solitamente gli rispondeva: «Se tu fossi rilasciato, dopo un mese torneresti piagnucolando e pretenderesti la tua vecchia cella.»
«Io non credo», rispondeva allora il detenuto n°112, «che mi farei sfuggire la libertà così facilmente.»
Quando il detenuto n°112 si sedette di fronte alla commissione di gentiluomini che avrebbero dovuto decidere se rilasciarlo per buona condotta o meno, il secondino era lì in piedi in un angolo, come un cane da guardia con le unghie tra i denti.
Quando il presidente della commissione chiese al detenuto n°112 se si sentisse riabilitato, lui rispose con quel suo sorriso luminoso: «Francamente sì, signore.»
«Bene. E come mai?»
«Beh, perché non vedo l’ora di riscattarmi come un onesto cittadino. Sono speranzoso, e la libertà è l’unica cosa che desidero. Per di più, come i fascicoli possono confermare, sono un detenuto modello. Non sono mai stato manesco, mai pizzicato con oggetti di contrabbando, mai neppure fumato una sigaretta. Pensi che non ho mai neanche detto una parolaccia, da quando sono qui.»
Quando il presidente della commissione ascoltò l’ultima frase, gli credette, perché sapeva che se fosse uscita dalla bocca di un altro detenuto qualsiasi, sarebbe suonata all’incirca come: “Non ho neanche mai detto una fottuta parolaccia, cazzo!”, seguita da una lunga sorsata di catarro.
Quando al detenuto n°112 fu concessa la libertà condizionata, aveva appena compiuto settantotto anni. Salutò il secondino con un addio. Il secondino rispose con un arrivederci.

Quando il detenuto n°112 ritornò in prigione, tre settimane dopo, il secondino rise così forte che si strappò due unghie, e dal dito indice colò un piccolo rivolo di sangue.
«Che ti avevo detto?» Disse il secondino, soddisfatto.
«Vaffanculo.» Rispose il detenuto n°112, con il muso scuro, pretendendo di tornare nella sua vecchia cella.


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