DOSSIER| Falàsha, una persecuzione mai finita

Se pensiamo che le persecuzioni sono un fenomeno che appartiene al passato, allora ci sbagliamo. In ogni parte del mondo, che sia l’Asia, l’Europa o l’Africa, migliaia di persone, appartenenti a minoranze etniche o religiose, sono vittime di persecuzioni. Sembrerebbe un ossimoro accostare “migliaia” a “minoranze”, eppure perché questo accade? Forse, proprio perché per secoli questi gruppi non sono stati visti come parte integrante della società, o peggio, erano guardati come il pericolo da debellare per un presunto benessere della società. La storia del passato ci ha insegnato, e continua a insegnarci e ricordarci, il tragico destino che cristiani, musulmani ed ebrei hanno dovuto affrontare; un destino incerto, fondato su una sola sicurezza: la continua e persistente minaccia. In questo quadro così complesso e articolato ci sono, però, alcuni aspetti ancora troppo sconosciuti dall’opinione pubblica. Uno tra questi è la persecuzione degli ebrei in Africa, gli Falàsha, tra i gruppi etnici e religiosi più perseguitati di sempre.

Sono state date differenti ipotesi circa l’origine dei Falàsha, ma una cosa è certa: vengono definiti da tutti gli “ebrei neri” (termine non molto gradito dalla popolazione stessa). Per quanto riguarda la loro discendenza, viene presa come indiscussa e comune la loro appartenenza all’Etiopia, in quanto prendere in esame i loro ipotetici legami con fonti leggendarie è un’operazione complessa e spinosa per gli stessi storici. L’anno scatenante di un turbolento destino fu il 1000, anno in cui musulmani e ortodossi, che vivevano in zone limitrofe ai Falàsha, iniziarono a porre sotto dure restrizioni e persecuzioni il popolo ebraico, costringendolo a sottostare a pesanti e intolleranti privazioni e soprusi. Confische, sottrazioni di terre coltivate e bestiame, privazione dei diritti civili e l’introduzione della schiavitù furono solo alcuni dei provvedimenti persecutori messi in atto da quei popoli con un’ideologia malsana nei confronti dei Falàsha. Tutto questo odio culminò nella più grave delle vessazioni che una comunità etnico-religiosa può subire: la totale distruzione dei loro luoghi di culto (templi e sinagoghe), condannando i Falàsha ad una vita nell’ombra, nella segregazione e nella menzogna per proteggere gli unici libri sacri rimasti, custoditi come reliquie in luoghi inaccessibili. Una storia di sofferenze e privazioni che iniziò a diffondersi nel mondo occidentale solo intorno al 1600, anno in cui molti ebrei (spagnoli, tedeschi, boemi, inglesi) promossero campagne per sensibilizzare gli israeliti (Israele era la terra da cui, probabilmente, discendevano i Falàsha) del continente, per porre un freno decisivo ai continui soprusi. Compiendo un salto in avanti di 300 anni, si arriva al 1936-1941, periodo in cui la storia degli ebrei d’Africa iniziò ad intrecciarsi strettamente con quella italiana, posta sotto la guida del fascista Benito Mussolini:

il governo fascista decise di tutelare la piccola comunità ebraica etiope, difendendola dagli abusi e dalle violenze di cui era stata oggetto da parte delle popolazioni, soprattutto musulmane”.

Nonostante nel 1970 alcune famiglie Falàsha riuscirono a raggiungere Israele, la situazione per questa popolazione ben presto tornò sotto un regime di terrore e distruzione. Il regime dittattoriale imposto nel 1974 scatenò nei confronti di tutti i possibili nemici una violenta persecuzione, comportando la quasi totale scomparsa degli “ebrei neri” tra il 1977 e 1979, dovuta anche dalla feroce carestia che colpì questo territorio. Fu così che migliaia di Falàsha, con le loro famiglie, per far fronte alla crisi imminente di spostarono verso Nord, nella speranza di raggiungere lo stato Israeliano. Queste operazioni (dette “Mosè, Giosuè, Salomone” e in parte clandestine) vennero portate a termine egregiamente, permettendo così la tutela e sopravvivenza di più di 20.000 Falàsha. Se un primo passo verso la salvezza era stato fatto, ora la comunità ebraica doveva confrontarsi con un altro, grave, problema: la difficile integrazione, la quale comportò un pesante isolamento di questo popolo a causa della grande arretratezza tecnologica e culturale, come l’alfabetizzazione.

Questa, in sintesi, è solo l’inizio della turbolenta storia dei Falàsha. Si, “solo l’inizio” perché ci sono stati continui risvolti nella storia degli ebrei d’Africa, non sempre positivi; infatti, il prezzo che hanno pagato per fuggire da una situazione di estrema crisi è stato più doloroso di quanto potessero pensare. Fin qui sembrerebbe, infatti, una fine rosea quella dei Falàsha; eppure, anche quando sembra essersi posto un rimedio, ecco che dai meandri più oscuri affiorano testimonianze sconcertanti, tali da far rabbrividire l’opinione pubblica. E’ stato un programma televisivo di approfondimento della tv israeliana (Vacuum) a denunciare la violenza subita dalle donne ebraiche giunte in Israele: donne etiopi ebraiche sarebbero state rese sterili a seguito dell’iniezione di un contraccettivo di lunga durata, il Depo-Provera. Ma come è potuto accadere questo? Mosse dalla paura queste donne si affidarono agli assistenti sanitari israeliani, i quali, una volte riunite, le costrinsero all’iniezione del contraccettivo. Se si pensa al Depo-Provera come a un semplice contraccettivo ci si sbaglia. Basti sapere che ciò a cui queste donne furono obbligate è un farmaco che, in alcuni paesi, viene utilizzato per la castrazione chimica degli stupratori, per far agghiacciare il lettore. Usato sulle donne Falàsha condusse alla sterilità, provocando un calo delle nascite del 20% in dieci anni; una conseguenza che si aggiunse al rischio di sviluppare l’osteoporosi, trombi ed emobolie. Un sopruso che si protrasse per anni.

Vessazioni e minacce che si sono protratte fino agli anni 2000. Nel 2006 fu rivelato come, per anni, le donazioni di sangue degli ebrei furono rifituate per timore di riscontrare malattie; ragazzi etiopi respinti da numerose scuole per la loro origine, e costretti a frequentare classi separate; datori di lavoro che non prendono nemmeno in considerazione un possibile dipendente etiope. E tutto questo cosa genera? La società meno scolarizzata, più sottopagata e discriminata del XXI° secolo, con un elevato tasso di criminalità diffusa tra i più giovani e di suicidio fra i più anziani. Sembrerebbe un tuffo nel passato, eppure sono episodi anche più recenti a ricordarci come questi gruppi vengano considerati delle minoranze anche dalle forze dell’ordine, che non trovano una motivazione per malmenare un soldato Falàsha, l’importante sembra farlo.

La dura realtà a cui queste popolazioni sono continuamente esposte non si può ridurre alla semplice definizione di “razzismo”. E’ qualcosa di ben più profondo, un odio immotivato, non comprensibile, finalizzato all’eliminazione di un popolo, perché non sarà solo la sterilità a causare la fine del gruppo dei Falàsha, ma nel mondo odierno, in cui la cultura è la componente fondamentale per il progresso, l’assenza di scolarizzazione tra i più giovani avrà come conseguenza la morte di una cultura e delle tradizioni che per secoli si sono tramandate.

 

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