Domenico Quirico: uno scrittore a confronto con se stesso

Roma, 18 maggio 2013, ANSA – “Finora non abbiamo alcuna informazione”. Così il presidente siriano Bashar al Assad risponde ad una domanda sulla sorte di Domenico Quirico, il giornalista de La Stampa scomparso da oltre un mese in Siria.

Domenico Quirico è un giornalista de ‘La Stampa’. Laureato in giurisprudenza, è stato caposervizio degli esteri e ora  è inviato. Negli ultimi anni ha raccontato il Sudan, il Darfur, la carestia e i campi profughi, l’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda; ha seguito le Primavere Arabe, dalla Tunisia all’Egitto, ed è stato più volte in Libia per testimoniare la fine del regime di Gheddafi. Da ultimo, ha coperto per tre volte la guerra in Mali, è stato in Somalia e più volte in Siria.

Nell’agosto 2011, nel tentativo di arrivare a Tripoli, è stato rapito e liberato pochi giorni dopo. Nell’aprile 2013, invece, è scomparso in Siria, paese nel quale è entrato dal Libano il 6 aprile, diretto a Homs e poi a Damasco.

Dalla copertina de “Il Grande Califfato” di Domenico Quirico

Il 6 giugno il primo contatto: una telefonata alla moglie in cui diceva di stare bene e di essere stato rapito, poi, di nuovo, il silenzio. È stato liberato l’8 settembre 2013.

Domenico Quirico è un giornalista acuto e sensibile, nonché un eccellente scrittore. Il suo modo di raccontare i fatti e le sue percezioni, però, cambiano dopo il rapimento.

Così scrive della Siria:

Per aver diritto di parlare del Male, di raccontarlo con decenza e onestà, bisogna averlo vissuto, condiviso, pagato. Bisogna inchiodare tra i denti il grido, lo strazio e l’ira più nera, l’amore stravolto in rancore per essere stati traditi da altri esseri umani. Il diritto – e l’obbligo – è quello di raccontare. Per vendicarsi, le vittime hanno prima di tutto un’arma: la memoria”.

E sembra di sentire l’eco di Primo Levi. Levi e il giornalista italiano condividono infatti la stessa rabbia e la stessa necessità di chiarire, in primo luogo a se stessi, per quale motivo alcuni esseri umani si divertano nel vedere la sofferenza altrui, o rimangano indifferenti.

Ti sale alla gola l’urlo, non per il terrore, ma per la nausea, di appartenere anche tu al genere umano”.

Donne, bambini e anziani fanno finta di non accorgersi del fatto che una persona sia vittima di un’ingiustizia. Addirittura ridono, un riso stridente, lacerante, di fronte ad un uomo, un uomo adulto, che piange, poiché non sente la famiglia da mesi.

Sono quasi affettuose, invece, le parole che riserva ai giovani che hanno assistito e partecipato alla Primavera araba:

Ai giovani tunisini che con me hanno attraversato il mare. Cercavamo un’altra vita. Siamo rinati”.

C’è dolcezza nel modo in cui Domenico Quirico si affianca ai giovani tunisini, protagonisti della cosiddetta ‘Primavera araba’, la rivoluzione che ha scosso il Nord Africa, scoppiata il 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid, un quartiere tunisino.

Emerge una grande umanità, un’estrema solidarietà e vicinanza del giornalista nei confronti di quelle masse di poveri, a cui, accerchiati dalla guerra, dalla crudeltà e dal sentore di morte, non resta che la fuga.

I primi articoli che ha scritto riguardo la Primavera araba contengono un rimprovero, a volte celato, altre esplicito, agli occidentali. Domenico Quirico punta il dito contro l’Occidente, che ha sempre sostenuto, in maniera più o meno evidente, i regimi tirannici.

Egli è molto aspro e astioso nei toni, sembrerebbe inflessibile. Al contrario, è incredibilmente tenero nei confronti di giovani che sente vicini, sebbene non indugi a rimproverarli, a volte molto duramente, riconoscendo le loro colpe. Non sono tutti, o del tutto, innocenti.

La dolcezza dei toni che caratterizzava i primi articoli, il primo libro, è completamente sparita, o quasi, nei due successivi e nei reportage pubblicati dopo il rapimento. Solo in alcuni momenti rari si può ritrovare la tenerezza dei primi scritti.

Nemmeno nei confronti dei bambini e degli anziani Quirico prova pietà. Loro non ne hanno mostrata quando lui era prigioniero; quando, sporco, denutrito e debole, camminava davanti ai loro occhi.

Proprio ai bambini è dedicato un intero capitolo. Un giorno un ”musetto”, di quattro o cinque anni, si è sporto dalla porta, curiosando all’interno della stanza in cui erano rapiti i due prigionieri. Quirico scrive che il bambino li ha osservati con la stessa curiosità con cui si guardano gli animali in gabbia, chiedendo spiegazioni al papà. Il piccolo, che è stato portato lì per vedere ‘dove lavora il papà’, perde subito interesse quando viene attratto dalla pistola che l’uomo ha con sé. Uno dei carcerieri gli permette di tenerla in mano e al piccolo brillano gli occhi. Il bimbo impugna l’arma con un gesto oscenamente, assurdamente professionale.

Si può provare compassione per la vita di questi bambini, plasmata secondo un’ideologia crudele?

Probabilmente Quirico non vi riesce, perché, impotente di fronte a quel piccolo ancora innocente e vittima, vede già ciò che diventerà da grande.


 

FONTI
Domenico Quirico, Primavera araba, 2011 Bollati Boringhieri editore.
Il paese del Male, 2013, Neri Pozza editore.
Domenico Quirico Il grande califfato, 2015, Neri Pozza editore. 

 

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