Capelli corti come un sogno androgino

A tutti capita di andare dal parrucchiere, non a tutti capita di scriverci delle pagine lucide di letteratura e femminismo.

Sibilla Aleramo. Anzi, Rina Marta Felicina Faccio, questo il suo nome di battesimo. 1876-1960.

Diciassette anni, violentata, rimasta incinta, costretta a un matrimonio riparatore.
Quella gravidanza si interrompe, ma più tardi ne segue un’altra. Un matrimonio buio: il marito è un uomo gretto che la assilla. Rina tenta il suicidio.

Si interessa al femminismo nascente. Segue i dibattiti circa la definizione dell’identità femminile, partecipa alle attività politiche e culturali delle emancipazioniste. Ha la fortuna di vivere pungolata da incontri intellettuali, al fianco di artisti di fama e di prestigio.

Più tardi abbandona il marito e il figlio. Si lega a Giovanni Cena, che decide per lei lo pseudonimo Sibilla Aleramo. Pubblica Una donna, autobiografia che parla di un «dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresenta con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza» (Luigi Pirandello, 1907).

Sono i momenti che segnano il suo passaggio interiore, simboleggiato dalla morte di Rina e la nascita di Sibilla, figura di donna rigenerata dalla parola poetica.

Incapace di rimanere in un posto, vive tra Milano, Roma, Firenze, Sorrento, Parigi, Capri, Forte dei Marmi… Affollata è anche la galleria dei suoi amanti, che vanno e vengono in maniera disordinata. Il segno tangibile che lasciano è l’ispirazione di Sibilla. Spicca la fragilità di una donna che ha bisogno, per vivere, di sentirsi desiderata da qualcuno. E ogni volta che qualcuno si presenta è per lei un fiorire di romanzi, inediti, o iniziati e non finiti, lettere ai più diversi destinatari, racconti, articoli e poesie in un caleidoscopio di sentimenti.

Il suo è un femminismo permeato dal decadimento del dovere della dedizione, a favore di un diritto alla felicità, fondato, quest’ultimo, sulla «facoltà -tutta umana- di pensare, di agire, di sperare» (Sibilla Aleramo).

Quindi ecco Sibilla raccontarsi mentre è del parrucchiere. (Capelli corti, in Andando e stando)

Ha tagliato i capelli, ce li ha corti. La sua mano accarezza voluttuosamente la nuca, avvertendola quasi una superficie di velluto. «La chioma lunga, la chioma gloriosa, m’impediva di conoscere questa parte di me, la forma di questo cranio ov’è racchiusa, dicono, la mia dura volontà» (Sibilla Aleramo).

Non fa scandalo tagliarsi i capelli, non più, è la moda, riflette la scrittrice. In realtà questo è ciò che pensano gli uomini, la storia è più complessa. È la storia di un imperioso comando alla civiltà. Cioè al comfort.

Tre colpi di forbici, rapidi «come sono rapidi i gesti irrevocabili», sono il ponte da un’epoca all’altra: è toccato percorrerlo alle donne dell’epoca di Sibilla. Che hanno pure visto correre le prime auto, volare gli aerei, che hanno imparato a parlare al telefono con un’amica di Londra. Donne rappresentative di due epoche, in due modi, con due tagli di capelli.

Erano Maddalene ridenti, le cui chiome, indisciplinate o meno, celavano le nudità agli uomini; sono ora nette, con un capello corto come sola cornice.

È il sogno androgino di Sibilla che si realizza di fronte allo specchio del coiffeur: il desiderio di affidare allo spirito e non già al corpo la differenza fra il femminile e il maschile.

Visionaria, Sibilla vede, sempre in quello specchio (divenuto ben altro), un avvenire in cui uomini e donne, perfettamente uguali nell’aspetto, incontrandosi, devono compiere «un atto di divinazione», un oracolo, in cui solo il mistero intimo, la forma mentis riveleranno il genere proprio di ognuno.

«Ma il salto dalla cabina del parrucchiere a queste fantasticherie sarebbe veramente per il lettore qualche cosa di troppo arbitrario».


FONTI

Fonte 1: Sibilla Aleramo, Andando e stando, Feltrinelli, Milano, 1997

Fonte 2: Marina Zancan, Le autrici. Questioni di scrittura, questioni di lettura, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000.

Fonte 3: Sibilla Aleramo

 

 

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