Briciole. Storia di un’anoressia; quando la letteratura entra nelle viscere della sofferenza.

E’ difficile credere e comprendere una malattia come l’anoressia, silenziosa e invisibile che scivola lenta e si ruba tutte le nostre fragilità per trasformarle in mostruosità che ci conducono verso il baratro dell’autodistruzione. E’ sorprendente come, però, la letteratura a volte sia in grado di entrare nelle viscere dell’animo umano, negli angoli più bui e nascosti, per scovare cosa vi si nasconda e quanto possano essere contorti e quasi inspiegabili i meccanismi della mente umana. Questo è proprio ciò che sembra fare Alessandra Arachi nel suo libro Briciole. Storia di un’anoressia. Perché è così, che diviene una persona che soffre di anoressia. Prima incontrollabile mostro di sé stesso, poi indomabile tiranno, poi un corpo vuoto, poi briciole e niente più. La scrittrice, con molta schiettezza, ci scaraventa nel tetro e soffocante universo parallelo in cui si trova a vivere una persona che soffre di suddetto disturbo, riuscendo a far comprendere perfettamente al lettore lo stato di perpetua angoscia e sofferenza che si prova, ma anche l’impossibilità che il mondo esterno capisca cosa stia accadendo a quella persona.

Briciole è quello che rimane della protagonista del libro, per la quale il cibo diviene ostacolo insormontabile che non le permette di affrontare neanche la più banale delle azioni durante le sue giornate. La sua esistenza è oramai ancorata a un continuo ciclo di autodistruzione, di pentimento e punizione. Di ciò che lei era non ne rimane che lo scheletro, scatola vuota a contenere quel poco che basta per rimanere al mondo. Il libro, diario di una diciassettenne, sembra essere la cronaca di una morte annunciata, lei un angelo caduto dal qual volo sembra prender vita un inferno senza via d’uscita.

“Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata”.

Una vita bella, bellissima, sensazionale, come dovrebbe essere quella di un qualsiasi adolescente a quell’età. Ma come succede, invece, che si tramuti in insopportabile esistenza? Da dove proviene quel maledetto seme che fa sbocciare questo infinito male, che la divora dall’interno, come elminti a milioni? A piccole dosi, piano, com’una volpe che si aggira quieta nel grano, questo mostro infame si insidia nell’animo. Inizia lento, anonimo, sconosciuto. E’ così, che ci presenta questo dannato male, la scrittrice. Una punta di spillo che buca proprio dove batte il cuore. Inizia tutto così, con un fastidio incomprensibile ma che non abbandona per “quelle gambe lunghe, ma non magre […] cosce ingrassate da un’adolescenza veloce […] poi divorante come un ossessione, quel male di vivere che spinge la mente a voler tenere sempre più sgombro e pulito il corpo […] Ed è rapidissimo, forte e travolgente com’un uragano, il modo in cui questo mostro infernale passa dall’essere un lieve fastidio, un ronzio silenzioso nel cuore della notte, all’essere tutto, unica ragione, unico motivo, unico pensiero fisso nella mente che in nessun modo può essere obliato.

Io cominciai eroica la mia crociata contro il cibo […]. In meno di un mese il mio cervello riusciva a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri […]

La protagonista del racconto, proprio come se dovesse intraprendere una vera e propria crociata, si batte con le unghie e con i denti contro il suo nuovo nemico, il cibo. Ma non solo. Perché ora, di nemici, ne ha ben due: il cibo e sé stessa.
In un libricino piccolo, snello, magro, la scrittrice ci presenta in pochissime pagine il disagio e l’infinita sofferenza causati da un male troppo spesso taciuto e al quale purtroppo non viene data la giusta importanza. Quando gli adulti non riescono a comprendere gli adolescenti, definiscono semplicemente i loro atteggiamenti di chiusura e strafottenza come mancanza di educazione o voglia di fare. Ma è proprio lì che bisognerebbe indagare più a fondo, ci spiega la scrittrice, poiché è proprio lì che si annidano le larve di questa sofferenza.

Ma la bolgia infernale in cui è precipitata la protagonista sembra non aver nessuno spiraglio per poter tornare a riveder le stelle. Anzi, peggiora. Il mostro di sé stessa la divora, il suo corpo, digiuno da tempo, non ha più le forze di reagire. Il suo animo, digiuno di emozioni, non ha più voglia di esser al mondo. Un vento infernale la trascina via, lontano, perpetuamente incatenandola a questo circolo vizioso di morte.

[…] per me mangiare e vomitare era diventato l‘unico passatempo della giornata.”
Il male si trasforma, il mostro cresce, prende il sopravvento su tutto. Come fosse una leggera sfumatura di colore, la protagonista passa da anoressia a bulimia, iniziando a vomitare quasi fino al soffocamento, rimanendo schiava e succube di un’odissea continua, rituale dissacrante e denigrante insopportabile di cui lei stessa è l’artefice.


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