Quando cade l’incanto: Guido Gozzano e Giacomo Leopardi

Al centro di Gozzano vi fu la convinzione che passione amorosa e passione poetica andassero a braccetto. E di entrambi questi amori gli rimaneva il senso amaro della impossibilità.

Giacomo Leopardi e Guido Gozzano.
In che modo un poeta crepuscolare può giovarsi dell’esperienza poetica del romantico per eccellenza? Il punto di partenza, per entrambi, è una crisi di identità e ruolo (ruolo sia della poesia, sia del soggetto). Entrambi i poeti assunsero questa crisi su di loro, ma i segni che portano ben visibili sulle loro carni e nella loro poetica sono tanto diversi.

Cadde l’incanto”, scrive Leopardi in Aspasia, lirica conclusiva di un ciclo, poetico e vitale, che ha per protagonisti Eros e Thanatos.  Alla fine di questa fase, per Leopardi, si rompe il cristallo, o, se si preferisce, si lacera il sipario delle illusioni.
Quella leopardiana (“Cadde l’incanto”) è una dichiarazione senza ritorno, dopo la quale il poeta di Recanati può solo guardare e guardarsi senza desiderio. Un addio alla vita terribile, ma pronunciato con buddistico distacco.
Leopardi assume, di fronte alla realtà, un atteggiamento titanico.

Il portamento grave e tragico di Leopardi abbassa il suo tono, approdando, con Gozzano, a una dimensione tragicomica.
Mirko Bevilacqua parla di una esperienza poetica maiuscola leopardiana, e di una minuscola, quella di Gozzano. Ben lungi dall’essere una classifica tra i due, si vuole sottolineare, piuttosto, l’abbassamento dell’orizzonte poetico.

Il dramma leopardiano è vissuto nello iato tra Io e Infinito, ma cede il testimone a un guidogozzano cosificato (cfr. Nemesi: “Chi sono? È tanto strano/ fra tante cose strambe/ un coso con due gambe/ detto guidogozzano”) che denuncia con ironia l’impossibilità perfino della tragedia. La parodia è l’unica misura che a Gozzano sembrò possibile di fronte alla degradazione delle situazioni e delle cose.
Quella di Gozzano è una modernità dolente: il poeta ha in sé tutta la consapevolezza d’essere giunto al capolinea del tragico. Da qui deriva il suo sogghigno, che fa da accompagnamento a tutti i suoi versi. È la consapevolezza di produrre poesia per sollazzo, “tabe letteraria”, dissacrazione, gioco… ma non più per l’Ideale.

Guarda gli amici. Ognuno già ripose

la varia fede nelle varie scuole.

Tu non credi e sogghigni. Or quali cose

darai per meta all’anima che duole?

La Patria? Dio? l’Umanità? Parole

che i retori t’han fatto nauseose!… (Pioggia d’agosto)

Dove Leopardi sorrideva (“Qui neghittoso immobile giacendo, / il mar la terra e il ciel miro e sorrido”, Aspasia), Gozzano sogghigna (“Tu non credi e sogghigni”, Pioggia d’agosto).
Un nuovo Leopardi, non quello che il diciannovesimo secolo volle, ma stavolta figlio della crisi d’identità del primo Novecento. Gozzano sceglie per i suoi versi un tono minore, discorsivo, ma pur sempre poetico. Perché ciò che si fa strada attraverso l’ironia è un sentimento, quello angoscioso dell’aridità spirituale, non tanto diversamente da Leopardi. Il suo artificio poetico non fu quello della retorica, ma della verità sfacciata, non l’enfasi, ma la materialità stridente.

Negli ultimi anni Gozzano, tentò altre soluzioni stilistiche e le distrusse puntualmente: perdeva ogni fiducia nelle possibilità di sopravvivenza della poesia.

Il silenzio della poesia preannuncia quello della morte, per lui, come per Leopardi, tanto precoce.


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