Sostiene Pereira: ma perché sostiene?

Sostiene Pereira è l’ultimo classico del Novecento, scritto da quel lusitanista geniale di Antonio Tabucchi, così portoghese nella cultura da non essere quasi più italiano. Così portoghese che non ci stupiremmo di trovarlo nelle antologie di letteratura in uso nei licei di Lisbona. Una modesta epopea civile, l’ultima possibile in un mondo che ha dimenticato la possibilità dell’azione, racconta il risveglio della coscienza in un pavido e grasso giornalista, il dottor Pereira. Ma tutte queste cose ci interessano solo in parte, la domanda che ci poniamo parte fin da titolo: sostiene. Ma perché sostiene?

Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare […] il fatto è che Pereira si mise a pensare alla morte, sostiene.

Lo conobbe o no in un giorno d’estate? Pensò o meno alla morte? Se è un fatto, perché sostiene? L’opposizione fra certezza e incertezza, questa continua e strana ambiguità, è uno degli elementi stilistici più interessanti dell’opera. E la ricerca del motivo di questo ossessivo sostiene è destinata a essere in parte delusa, per fortuna. Lo anticipiamo subito: si giunge alla fine del romanzo senza sapere il perché del sostiene. E se non è l’autore stesso a dircelo, possiamo fare noi delle supposizioni.

Un primo indizio ce lo dà Tabucchi nella Nota conclusiva al romanzo: Il dottor Pereira mi visitò per la prima volta in una sera di settembre del 1992. Dopo questa visita, ovviamente metaforica, il personaggio di Pereira inizia a prendere forma – e quanta forma – nella mente dell’autore, che si impegna a riportarne le parole su carta. Un primo senso del sostiene: Tabucchi sta riferendo al lettore il racconto di un terzo, come se fosse una lunga intervista. Il dottor Pereira potrebbe stare mentendo, insomma. Tabucchi non vuole assumersi troppe responsabilità nei confronti del lettore, ma quante se ne prende nei confronti della Letteratura. Assumere un ruolo di mediatore così importante nel 1994 non era certo cosa da poco, in un periodo di pensiero debole e fine delle grandi narrazioni. Mostra grande coraggio da parte del lusitanista.

Ma non è l’unico atto di coraggio: l’altro è proprio quello di Pereira. Se diamo credito alla forma dell’intervista, allora Pereira sta mettendo il suo nome sul racconto di un fatto alquanto scomodo, prendendosi non pochi rischi personali. Avrebbe avuto non solo il coraggio di compiere l’atto ribelle del finale, ma anche di raccontarlo al romanziere, non omettendo nomi di altri né il proprio. Per questo il fatto non è raccontato da un narratore onnisciente: Pereira si assume la responsabilità in prima persona di sostenere la verità di ciò che sta affermando, dando prova dell’avvenuto risveglio della coscienza al quale accennavamo all’inizio.

Un terzo elemento di interesse è invece una suggestione personale. Il Portogallo è una terra di sogno, al limite fra la realtà e la fantasia. Potrebbe testimoniarlo chiunque l’abbia visitato. L’accostamento continuo e ossessivo del sostiene a espressioni che rivendicano la fattualità, ai dialoghi dei giornalisti e alle inquisizioni sulla verità, crea un clima di mistero e sospensione, di velata e non eccessiva magia. E questo clima, che restituisce perfettamente Lisbona e i suoi dintorni, è certamente uno degli elementi che ha fatto la fortuna del romanzo.

Il coraggio del letterato nei confronti della letteratura, del giornalista nei confronti della verità, e la magia di Lisbona e del Portogallo. Sosteniamo che Tabucchi abbia scritto un grandissimo romanzo.


FONTI
Sostien Pereira, Antonio Tabucchi, Feltrinelli, Milano, 1994

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