“When John first told me about Billie and Mike, he was like: Man, I found this kids, they’re like the punk-rock Beatles, man! They are so cool […] And then… He was right!”.
(Tré Cool, Green Day: The Early Years (Full Documentary), 2017).
In molti possono affermare di sapere approssimativamente chi siano i Green Day, ma pochi conoscono davvero le origini del celebre trio californiano. Quando la punk-rock band torna alla ribalta nel 2004 con American Idiot, facendosi portavoce di una generazione post 11 settembre disillusa e paralizzata, ha già alle spalle una solida carriera, ben lontana da tormentoni quali Boulevard of Broken Dreams.
Una prima svolta per gli Sweet Children avviene quando decidono di firmare per l’etichetta Lookout! Records e nel 1989 registrano il primo EP; per l’occasione il trio cambia nome in Green Day, in onore di uno dei loro passatempi prediletti: passare giornate intere a fumare marijuana. Il primo, vero e proprio album dei Green Day esce nel 1991 e porta l’enigmatico titolo di 1,039/Smoothed Out Slappy Hours: si tratta in realtà di una compilation di vecchi EP della band usciti tra il 1989 ed il 1991, ovvero 39/Smooth, 1,000 Hours e Slappy. Disco punk dai toni adolescenziali, tanto per i contenuti (storie d’amore sognate, vissute e finite in drammi, frustrazioni e paranoie da liceale) quanto per il sound ancora acerbo del gruppo, ma promettente. Nello stesso periodo, John decide di lasciare la band per dedicarsi agli studi universitari e viene sostituito da un altro giovane e stravagante batterista, Frank, conosciuto meglio da tutti con il nome d’arte di Tré Cool, grazie al quale i Green Day sembrano trovare una sintonia mai conosciuta prima.
Nel 1992 esce il loro secondo abum, Kerplunk, che riscuote un discreto successo, proponendosi come un lavoro meglio strutturato e più vario del precedente, mentre il sound del trio diviene sempre più definito.
Tuttavia, i Green Day incontrano per la prima volta il successo commerciale nel 1994 con l’uscita dell’acclamato Dookie, che segna l’inizio di una vera e propria svolta. La band sembra riuscire nell’intento (voluto o non) di portare il punk, genere di nicchia, ad un livello di fama globale: il punk diviene mainstream. La band si ritrova sulle copertine di riviste, a calcare i palcoscenici più importanti del mondo, rilasciare interviste e a vendere milioni di copie, il tutto mentre i vecchi amici e fans gli voltano le spalle e li accusano di rinnegare il loro passato underground. Ma i Green Day ormai non possono più fermarsi, si sono spinti troppo in là, tornare indietro è impossibile. La loro partecipazione a Woodstock ’94 (ne abbiamo già parlato qui nda), battaglia nel fango tra Billie Joe e fans inclusa, contribuisce ulteriormente all’affermazione del loro folgorante successo.
Altri album si susseguono nella carriera dei Green Day: Insomniac (1995), Nimrod (1997), Warning (2000), più una raccolta di singoli nel 2001, International Superhits! ed una raccolta di B-Sides nel 2002, Shenanigans, che, pur essendo lavori validi, compositi ed interessanti, non riescono a raggiungere la stessa popolarità di Dookie e portano inevitabilmente al declino della band. Fino a quando, nel 2004, non compare American Idiot, ambizioso concept-album dai toni decisamente più politici ed impegnati, che li porta prepotentemente alla ribalta.
Ma che fine hanno fatto, oggi, i Green Day? Il trio californiano, composto non più da ventenni ma da quarantenni miliardari che conservano volti giovanili e look rockettaro, continua a fare musica e a sfornare dischi (di cui l’ultimo, Revolution Radio, datato 2016). I Green Day di oggi sono un fenomeno commerciale, lontani in tutto e per tutto da quelli che erano i loro esordi, ma nel corso degli anni sono anche cresciuti, maturati, musicalmente ed umanamente, e sembrano avere ancora molto da dire. Cosa più importante, non hanno perso la voglia di divertirsi e far divertire, di far riflettere e di portare avanti quello in cui hanno sempre creduto, sin dagli albori: la libertà e la voglia di essere sé stessi.
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