Scuola nel mondo

Dossier | La scuola nel mondo tra povertà e sistemi educativi

Nei mesi scorsi si è tornato a parlare di lavoro minorile per le polemiche legate all’alternanza scuola-lavoro, una novità prevista dalla Riforma della Buona Scuola per far incontrare il mondo della scuola con quello del lavoro. Secondo i critici di questo sistema l’alternanza scuola-lavoro è qualcosa che arriva a rasentare lo sfruttamento minorile e depaupererebbe ulteriormente una scuola in cui l’autorità educativa dei professori è ai minimi storici, in quanto professione socialmente poco stimata e scarsamente redditizia. È davvero così? Com’è la situazione nel resto del mondo?

Il diritto all’istruzione, da noi considerato scontato, in molte parti del mondo è ancora qualcosa per cui lottare con forza. Secondo i dati di ONG come UNICEF e Comunità di Sant’Egidio sono oltre 100 milioni (su un totale di circa più di 600 milioni di minori) i bambini ai quali è negato il fondamentale diritto all’istruzione di base. E di questi il 60% è rappresentato da bambine. La più alta percentuale di minori che non possono studiare è concentrata soprattutto nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Tuttavia non va mai dimenticato che anche in Paesi come l’Italia esistono sacche di lavoro minorile e mancata scolarizzazione. Save The Children nel presentare il proprio programma Illuminiamo il futuro dà alcuni numeri allarmanti riguardo lo stato dell’educazione italiana:

Il 20% dei quindicenni non raggiunge la soglia minima di competenza in lettura e il 25% quella in matematica. È una povertà che nessuno vede, nessuno denuncia, ma che agisce sulla capacità di ciascun ragazzo di scoprirsi e coltivare le proprie inclinazioni e il proprio talento.

La celebre organizzazione non governativa aggiunge poi una nota sconsolante:

Il fenomeno degli “early school leavers” in Italia ha un picco rispetto agli altri Paesi dell’UE.

In Africa e Asia è proprio la piaga endemica del lavoro minorile a rappresentare il maggior ostacolo all’alfabetizzazione di massa. Sempre secondo dati dell’UNICEF e della Comunità di Sant’Egidio solo 12 Paesi in via di sviluppo presentano tassi di frequenza della scuola secondaria pari o superiori al 90% (cioè i valori registrati nei Paesi del Nord del mondo): in Asia meridionale tale tasso è intorno al 68%, mentre nell’Africa subsahariana scende intorno al 57%. Questa evidente disparità è dovuta proprio alla condizione economica di questi Paesi. Laddove la povertà è estrema, non c’è possibilità per l’istruzione, perché altri sono i bisogni primari da soddisfare: ma questo è un circolo vizioso che finisce per autoalimentare ulteriormente la povertà, perché mantiene nell’estremo bisogno masse che grazie alla scuola avrebbero invece la possibilità di migliorare il proprio lavoro e quindi la propria condizione economica,  oltre alla possibili sviluppare la produttività generale con soluzioni più complesse e innovative, cosa che favorirebbe un’innalzamento non solo della propria qualità di vita ma della stessa economia nazionale. Un altro flagello poi che mina alla base qualsiasi speranza di istruzione è la guerra: un male difficile da estirpare dalle terre africane, segnate dalle ricorrenti guerre etniche, politiche e ideologiche; ma anche l’Asia ne è sempre più colpita, vuoi per le guerriglie marxiste che ne flagellano soprattutto i territori meridionali, vuoi per l’estremismo islamico che sta devastando il Vicino Oriente.

In quei Paesi in via di sviluppo dove la situazione economico-politica è più stabile, invece c’è un altro grave problema che limita fortemente l’istruzione: il costo dello studio. E questo vale sia dal punto di vista degli studenti (e delle loro famiglie), sia da quello degli Stati. Il costo degli spostamenti (spesso le scuole in aree rurali possono essere molto distanti dai villaggi), dell’iscrizione e dei vari materiali scolastici (non solo libri, ma in certi sistemi scolastici anche divise e alloggio) può essere proibitivo per famiglie appena sopra la soglia della povertà e non tutti i Paesi si possono permettere sistemi di welfare scolastico che calmierino o annullino completamente tali spese. In questo influisce molto anche il modo in cui ogni Paese organizza il proprio sistema scolastico, come rilevano alcuni report specialistici:

La parte relativa al finanziamento statale passa dal 67% nella Corea del Sud al 98% in Finlandia. I sistemi asiatici e anglosassoni si distinguono dagli altri perché la parte del settore privato nel finanziamento della spesa scolastica è molto più importante della media (tra il 24 e il 34% contro il 16%).

Molti Paesi asiatici e africani infatti per eredità coloniale hanno mutuato l’organizzazione scolastica anglo-americana, poco propensa alla centralizzazione statalista tipica di Paesi come Francia, Italia e Paesi del Nord Europa, che invece hanno costruito la propria mitologia nazionale grazie al controllo assoluto della scuola da parte dello Stato. Il problema però è che, mentre negli USA o in Gran Bretagna, a supporto di un brillante e competitivo sistema scolastico essenzialmente privato, c’è un articolato sistema di welfare statale che cerca (anche se non sempre ci riesce) di permettere a tutti, nonostante la propria condizione reddituale, di accedere alle migliori proposte educative, in molti Paesi africani o sud-asiatici il sistema scolastico di natura privatistica, dagli alti costi per le famiglie, non si accompagna a efficaci politiche di supporto per gli studenti da parte dello Stato. La crisi economica di questi anni infatti ha colpito duramente anche questi Paesi, come notava Avvenire in un dossier dedicato:

Oggi, la mannaia che si sta abbattendo sui bilanci destinati all’istruzione di numerosi Paesi africani si chiama crisi economica internazionale. Mentre in molte parti del continente le famiglie sono costrette a ricorrere a maestri “comunitari” (pagati cinque o sei volte meno di quelli statali), vari governi stanno reagendo all’emergenza reclutando personale a termine e spesso non diplomato, quindi meno costoso.

Il problema, del resto, colpisce anche i Paesi avanzati, come fanno notare i dati dell’OCSE:

La spesa pubblica in media nei paesi dell’OCSE non ha tenuto il passo con l’aumento del PIL. Ciò ha portato a una diminuzione del 2% della spesa pubblica destinata alle istituzioni dell’insegnamento in percentuale del PIL.

Ciò che emerge chiaramente in ultima analisi è l’importante legame, spesso sottovalutato, tra economia e scuola: se più evidente e immediato infatti è il rapporto tra povertà minorile e negazione del diritto all’istruzione, non dovrebbe essere dimenticata né sottovalutata l’importanza dell’organizzazione di un sistema scolastico che sappia mettere economia e scuola in un circolo virtuoso e vivificante per entrambi. Quest’ultimo poi è un compito che non va mai considerato esaurito e compiuto una volta per tutte: un sistema può rivelarsi utile in una certa fase storica, ma in un’altra potrebbe atrofizzarsi e non essere più in grado di ottenere i risultati sperati. La risposta al problema del diritto universale all’istruzione non è di per sé né lo statalismo scolastico né la privatizzazione educativa, ma la capacità di ogni organismo nazionale di riuscire a mettere in atto il sistema più in grado di rispondere alle sfide educative che il proprio Paese si trova ad affrontare in un certo momento storico.

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