L’ILLUSIONE DELLA CATARSI: 57. Biennale Arte di Venezia (parte I)

Viva Arte Viva” è lo slogan entusiasta e promettente di questa 57. Biennale Arte di Venezia. Uno statement da declamare in coro con convinzione e gioia, il manifesto sintetico di una mostra che si aspetta di coinvolgere il visitatore in un vortice celebrativo dell’arte e della creatività. Una Biennale “con gli artisti, degli artisti e per gli artisti”, come negli ultimi quattro mesi non si è mai stancata di ripetere la direttrice artistica di quest’edizione, Christine Macel, colonna portante del Centre Pompidou di Parigi da quasi vent’anni e anche della scena curatoriale contemporanea. È forse per contrapporsi all’ultima Biennale, All the World’s Futures, considerata da molti eccessivamente politica, pessimista e focalizzata sulle dinamiche economico-sociali del mondo contemporaneo, che la mostra ideata dalla Macel si manifesta al pubblico come lo sprigionarsi di una forza, l’espressione artistica, che è invece ottimista, generosa, slanciata candidamente verso il futuro, aperta ad ogni potenzialità umana. La natura, il cosmo, l’emozione, la spiritualità, la condivisione sono concetti chiave da cui la curatrice francese parte per articolare la mostra internazionale, allestita, come sempre, nel Padiglione Centrale dei Giardini e nelle Corderie dell’Arsenale.

Il sapore un po’ naïf ma anche vago di una tale linea curatoriale, che auspica un “nuovo Umanesimo” nella cultura e nelle arti e sottolinea l’importanza del ruolo dell’artista, si percepisce, a mio avviso, già all’entrata del Padiglione Centrale. Qui accoglie il visitatore la totale e accurata ricostruzione dello studio dell’artista statunitense Dawn Kasper, che per tutta la durata della Biennale vive e lavora in quel medesimo spazio, sotto gli occhi sorpresi, divertiti e curiosi dei visitatori, dipingendo, ascoltando musica, stirando, scrivendo, leggendo. Proprio così: The Sun, the Moon and the Stars non è un’installazione, bensì la ricreazione sul suolo veneziano di un atelier che diventa archetipo universale del luogo della produzione artistica, dello sviluppo del pensiero creativo. Se una tale immagine, sulla carta, può apparire intrigante, nella realtà diventa, ai miei occhi, la sterile e ritrita celebrazione di quella figura a cui tutti siamo in fondo affezionati: l’artista romantico, il genio, che nella solitudine del suo studio, tra un bicchiere di vino e un brano di Bob Dylan, crea poderosamente la sua opera d’arte rivoluzionaria. La figura dell’artista non viene sottolineata, discussa, spiegata, collocata come corpo politico pensante in un contesto storico determinato, niente del genere: l’artista, agli occhi, a quanto pare, della Macel e della sua idea di potenziale pubblico, viene esposto come un animale allo zoo nella fittizia ricreazione del suo habitat, da additare come un essere esotico, creatura di un mondo magico e “altro” rispetto a quanto la società mainstream propone.

Per citare un altro termine caro alla linea curatoriale, l’artista è colui che riconosce il vero valore dell’otium, il tempo libero prezioso che è fonte di ispirazione e di nuove idee, non come vorrebbe una società sempre duramente dedita al negotium, all’efficienza e alla produttività. Il “nuovo Umanesimo” cui dovrebbe ispirare questa Biennale è infatti, sempre secondo le parole della Macel, “un’alternativa all’individualismo e all’indifferenza” del mondo contemporaneo, un mondo dipinto come spregiudicato, meccanico e complessivamente malvagio: la convinzione forse un po’ provinciale, come dire, di quell’élite culturale che si ritiene invece estranea alle logiche socio-politiche attuali, nell’esaltazione di un fantomatico mondo della libertà, dell’innocenza e della verità dato dalle arti.

La percezione di una Biennale che di tutto vuole parlare senza in realtà entrare nel merito specifico di nulla si ha, a mio avviso, in molti dei 9 cosiddetti Padiglioni Trans-nazionali che compongono la mostra: un tentativo di rappresentazione stucchevole di quelli che sono i vari problemi sociali attuali o i buoni valori umani occidentali, temporaneamente sublimati in forma di opere d’arte e collocati in un percorso catartico e insieme palliativo, edulcorato. In questa luce percepisco anche l’opera di Olafur Eliasson, Green Light – an artistic workshop. L’artista danese, celebre per i suoi lavori legati a problematiche sociali o ambientali, espone in una sala interamente dedicata a lui innumerevoli lampade modulari in legno, dal design vagamente nordico, dotate di luci a LED verdi (giustamente, il colore della speranza), acquistabili per 250 euro. Il ricavato della vendita viene devoluto interamente a diverse ONG che aiutano e si occupano di rifugiati. Di nuovo, l’ambiguità di una simile visione all’interno della Biennale Arte: un’iniziativa che scalda il cuore o la mercificazione semplice, buonista e omeopatica di una complessità politico-sociale che andrebbe valutata più responsabilmente?

Se più opere esposte trattassero e si intersecassero con queste tematiche (ambientali, economiche, storiche) la riflessione potrebbe risultare complessa e criticabile (come la scorsa Biennale di Okwui Enwezor) ma senza dubbio interessante e ricca di spunti; invece, lavori di dubbia pregnanza collocati in padiglioni di altrettanto dubbio gusto (Padiglione delle Gioie e delle Paure, Padiglione degli Sciamani, Padiglione del Tempo e dell’Infinito, solo per citarne tre dei più altisonanti) lasciano il visitatore perplesso e con il dubbio di trovarsi ad una fiera come Art Basel o Context Art Miami invece che alla prima Esposizione Biennale d’Arte del suo genere al mondo. La gran parte dei lavori allestiti alle Corderie dell’Arsenale colpisce certo per maestosità, virtuosismo e sopraffazione (pensiamo ai lavori di Sheila Hicks, a Yee Sokyung, a Michael Blazy): quasi gli elementi di base di quello che nella storia dell’arte è stato il Barocco, in cui la stravaganza e l’eclettismo delle forme e dei colori magnetizzano, ipnotizzano lo sguardo.

Tra il Seicento e oggi forse il passo non è così lungo: Instagram diventa lo strumento compulsivo di una visione che tutto assorbe, che da tutto si fa saturare. L’impossibilità della fruizione lucida di una mostra che conta più di 100 artisti e quasi 100 luoghi, tutti slegati tra loro se non da deboli direttive curatoriali e discutibili tematiche-ombrello, tra pseudo-politica e ingenuità romantiche, fa girare la testa ma allo stesso tempo lascia un senso di vuota inutilità. Un’altra mostra che per lo spettatore si autoconclude nel momento stesso dell’uscita dai cancelli, ennesimo episodio di stravaganza visiva e meravigliose illusioni. Viva Arte Viva!

57. Esposizione Internazionale d’Arte

fino al 26 novembre 2017

 

 

Fonti: autrice,

http://www.labiennale.org/it/news/57-esposizione-internazionale-d%E2%80%99arte-viva-arte-viva

http://www.labiennale.org/it/arte/2017/intervento-di-christine-macel

http://www.lastampa.it/2017/05/15/cultura/arte/home-cover/biennale-cosa-vedere-e-cosa-dimenticare-401hg9ecMTo7210nzUOS3J/pagina.html

https://www.inexhibit.com/it/case-studies/biennale-arte-venezia-2017-viva-arte-viva-mostra-arsenale/

intervista a Olafur Eliasson: https://www.youtube.com/watch?v=hr1nhp26iUg

Foto: copertina

 

 

 

 

 

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