Liceo breve: perché sì, perché no

di Federico Lucrezi

In concomitanza con i giorni più caldi dell’estate a riscaldare anche il dibattito pubblico è arrivato il via alla sperimentazione del liceo breve a partire dall’anno scolastico 2018-2019.

Il ministro Fedeli ha firmato il decreto che permetterà a 100 scuole italiane, licei e istituti tecnici, di entrare nel programma.

Ogni istituto avrà tempo fino alla fine di settembre per presentare il proprio progetto che dovrà essere esaminato da un’apposita commissione e valutato in termini di innovazione e integrazione col mondo lavorativo e universitario.

A ben vedere non si tratta di una novità assoluta. Negli ultimi anni una dozzina di istituti hanno proposto percorsi su base quadriennale con progetti presentati singolarmente al ministero e valutati caso per caso. Il decreto firmato dal ministro sancisce però l’intenzione del governo di muoversi verso questa direzione nel nome di una maggiore omologazione con altri paesi europei.

Tutto ciò ovviamente ha dato parecchio materiale su cui discutere ai commentatori del web. Noi proviamo a smarcarci dal qualunquismo imperante e ad analizzare le ragioni per essere a favore e quelle per essere contari.

 

Perché sì.

Il principale obiettivo dichiarato è un allineamento con paesi quali Spagna e Francia in cui gli studenti concludono il ciclo di studi superiori conseguendo il diploma a 18 anni. Un anno prima di quanto avviene oggi in Italia.

Va poi sottolineato che il decreto non prevede un taglio significativo ai programmi, quanto una riorganizzazione dei contenuti nel nuovo arco temporale. Sono da ritenere prive di fondamento dunque le obiezioni di chi vorrebbe la scuola ulteriormente indebolita da questa novità. Certo, la nuova maturità porterà ad un peggioramento della qualità dei diplomati, ma per il liceo breve no, non si può dire lo stesso.

Lo sviluppo dei progetti che gli istituti dovranno presentare, infine, sarà certamente un incentivo preziosissimo per rivedere un’impostazione scolastica spesso anacronistica ed eccessivamente nozionistica e uno stimolo a compiere il definitivo salto di qualità nell’integrazione dei supporti tecnologici che la sola introduzione delle lavagne interattive degli ultimi anni non ha potuto garantire.

 

Perché no.

“Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova” recita un vecchio proverbio. I progetti formativi potrebbero non funzionare come previsto e gli stessi insegnanti potrebbero non essere capaci di adattarsi alle nuove impostazioni didattiche abbastanza in fretta producendo una sorta di effetto boomerang andando a inserire nel mondo universitario e lavorativo diplomati con lacune ancora più evidenti dei colleghi che hanno studiato per cinque anni.

È giusto specificare inoltre che per paesi come le già citate Spagna e Francia che in Europa conferiscono il diploma a 18 anni ci sono Germania e Danimarca, solo per citarne un paio, che tengono compagnia all’Italia.

La sensazione è che molto in questo senso faranno le capacità degli studenti coinvolti nella sperimentazione. I migliori non avranno grosse difficoltà a sostenere il carico di lavoro necessario a portare a termine il percorso quadriennale, lo stesso non si può dire di chi già oggi necessita di più tempo per assimilare nozioni e concetti. Se il liceo breve nei prossimi anni diverrà appannaggio della prima categoria si potrebbe andare incontro ad una scuola a due velocità. Meritocratica, certo, ma forse poco equa.

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Comunque la si pensi quel che è certo è che adesso che è finita l’estate è il momento per dirigenti e docenti di mettere mano a programmi e schemi didattici pressoché immutati dai tempi del Ventennio. Indipendentemente da come andrà sarà sicuramente una bella occasione per il ministero di analizzare progetti innovativi e nuove prospettive per una scuola, quella italiana, che di innovazione ha un disperato bisogno.

 

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