Il campo di pomodori – parte I

di Andrea Piazza

Ieri sera ho sistemato le ultime cose in valigia prima di sdraiarmi sul letto. Provavo la solita stanchezza. La gamba pulsava in maniera insopportabile.

Mi sono sforzato di non pensarci, per quanto mi sembrasse impossibile. Ho preso la pastiglia, riponendo poi il bicchiere sul comodino alla mia sinistra. La casa era spenta, solitaria; mi pare ormai che tradisca l’immagine di un uomo spoglio, anonimo.

Scendendo le scale, questa mattina, sentivo tutto il peso delle ultime giornate, sintetizzato nella valigia che faticosamente mi trascinavo di gradino in gradino, lasciandola sbattere senza troppa cura.

Ho dormito male, ma oramai sono diverse notti che fatico a prender sonno. Mi sono alzato due o tre volte per controllare l’armadietto delle medicine in cucina, sopra il lavandino; ho frugato alla cieca, per pigrizia (l’interruttore si trova sul muro opposto della stanza), non riuscendo a procurarmi qualcosa di appropriato – un sonnifero suppongo. Ormai è un gesto automatico.

Non mi è venuto in mente cosa stessi davvero cercando finché non mi sono ritrovato seduto al mio posto, circa un’ora fa, mentre guardavo fuori dal minuscolo finestrino. Sfiorando con lo sguardo le nuvole che velano la terra laggiù in fondo, mi sono ricordato d’un tratto di quand’ero bambino, dell’asma, della ricerca frenetica dell’inalatore che conducevo quasi ogni notte, per paura di svegliare mio padre che doveva alzarsi presto, nel bagno buio. Quel gesto, come un riflesso condizionato, dev’essere rimasto con me sin da allora; quell’alzarsi spasmodico durante la notte alla ricerca di qualcosa – e ad oggi non importa nemmeno più che cosa, l’inalatore non è che un lontano ricordo e le pastiglie, invece, devo prenderle prima di coricarmi.

Ora sono seduto qui, al medesimo posto, come si conviene. Di fianco a me c’è una vecchietta arzilla che parla col terzo personaggio di questa fila, un tale in giacca e cravatta che sembra morire dal desiderio di scambiare quattro chiacchiere con chiunque. Non so bene di cosa parlino, perché le parole mi arrivano frammentate, come se ci fosse del vento a spazzarle via di tanto in tanto – dev’essere il sonno che va e viene dal mio corpo, e ottunde ogni altro senso. O forse è proprio quel vento che scorre impazzito al di là di questo oblò di vetro, circondando l’intero aereo, che dicono sia progettato proprio per incanalarlo al meglio e mantenersi in quota.

Il viaggio dovrebbe durare ancora un’ora, dopodiché è previsto l’atterraggio. Ora mi sento più sveglio, per quanto lontanissimo dall’essere riposato; cerco di sfogliare una delle riviste incastrate sul retro del sedile davanti al mio. Parlano di voli, viaggi, offerte. Parlano dei luoghi scelti come destinazione dai turisti di ogni parte del mondo; il mare, le città più vive, tutta l’Europa distesa ai nostri piedi. Ho un po’ di nausea e quindi richiudo la rivista, lasciandola sul tavolino – in compagnia di una bottiglia d’acqua ormai vuota e un foglio di carta imbrattato da qualche disegno e nessuna scritta sensata.

Cerco di chiudere gli occhi per qualche minuto. Vorrei distendere la gamba destra, ma lo spazio è stretto e tutto ciò che posso fare è incastrarla tra la parete e il sedile di fronte. A volte è come se fosse un corpo morto, come se non facesse parte di me; un arto estraneo che mi accompagna come un’ombra. Un regalo indesiderato.

Imparare a convivere col dolore non significa accettarlo.

Finalmente mi sembra di prendere sonno. Curiosamente, poco prima di addormentarmi, sul confine indistinto tra sonno e veglia, rivedo in un flash la sala d’attesa dell’aeroporto di Boston – come se non fossi mai partito del tutto, come se una parte di me, contro il mio volere più intimo, si ostinasse a rimanere dall’altra parte dell’oceano – è quella parte di me che ama l’esilio, o forse soltanto l’idea dell’esilio.

Mi risveglio dopo non so quanto tempo. L’orologio non si è spostato di di molto; mezz’ora, quaranta minuti al massimo. Cerco di sgranchirmi i muscoli, con scarsi risultati; sono un po’ stordito. L’aereo dev’essere in fase di discesa – forse è proprio la voce del pilota ad avermi richiamato dal sonno – perché sento le orecchie schiacciate dalla pressione e la testa insolitamente pesante.

Tiro fuori il pacchetto di Citelli dalla tasca e ne prendo un paio. Si sciolgono dolcemente sul palato lasciandomi la solita sensazione di freschezza. Mi sento subito meglio.

Sbadiglio esageratamente per stappare le orecchie. Uno scricchiolio mi informa del successo della mia operazione. Guardo fuori dal finestrino, per capire dove ci troviamo – stiamo sorvolando il continente, finalmente.

L’aereo continua a scendere a vista d’occhio. E’ in questo preciso istante che mi copro le orecchie con le mani, premendo i polpastrelli contro i lobi per sigillare l’apertura. Immediatamente rimango isolato dall’esterno; avverto solo un rumore di fondo, come sempre, un rumore che non è silenzio e non è suono – e la mia mente corre subito a quell’immagine, o meglio a quel ricordo, che è l’unica cosa che mi rimanga…

Sento il costante, inquietante rombo che scuote debolmente l’aria tutto attorno. I bombardieri si stanno avvicinando. È come se un’immensa marea stesse per sommergere tutto, e mi accorgo di avere la pelle d’oca. Muovo a scatti le dita, premendo i polpastrelli con ancora più forza, spostandoli in alto e in basso poco alla volta. Poi li sollevo appena, e richiudo immediatamente, e d’un tratto rivivo i sussulti delle esplosioni – ecco una bomba che tocca terra, eccone un’altra che esplode, ma sono ancora lontane, e tutto è come ovattato in questo mondo surreale, mentre le mie dita continuano a muoversi a scatti e mi immergo sempre di più nel ricordo….

“…afferrare!”

Un grido acuto, proveniente dalla mia sinistra, fa sparire il ricordo, come se lo specchio della mia memoria fosse andato in frantumi lasciando scappare ogni suono attraverso le crepe.

“Come?” – mi giro verso l’hostess che si è chinata nella mia direzione.

“La cintura, signore! Stiamo per atterrare” – mi risponde in modo concitato.

“Ah, certo, certo… mi scusi”

Cerco la cintura – benché mi sia sempre sembrata un vezzo più che un reale modo per proteggersi – la allaccio in fretta e mi riappoggio allo schienale. L’aria condizionata mi preme sul collo aumentando la sensazione di malessere.

“Va tutto bene?” – questa volta è la voce della vecchietta seduta di fianco a me.

La guardo di sfuggita. Ha i capelli congelati dalla lacca, e un odore come di fiori si sprigiona dal suo vestito; fronte altissima e un viso ancora giovane, nonostante qualche solco sulla pelle del collo lasci trapelare la sua reale età.

“Sì, tutto bene grazie. Solo un po’ di stanchezza accumulata…”

Rigiro lo sguardo verso il sedile anteriore.

“Naturalmente. Le chiedevo come si sente perché l’ho vista coprirsi le orecchie, e sa, mi chiedevo se si sentisse male. Magari ha paura di volare!”

Dopo una pausa aggiunge: “E’ la prima volta che viaggio in aereo, ma non mi pare così terribile come dicevano. Vorrei solo potermi accendere una sigaretta, proprio ora”

Ha un tono di voce sorprendentemente fresco, come se nel corpo di un’anziana signora borghese si nascondesse una giovane in fuga da casa.

“Ah, guardi, nemmeno io viaggio spesso. Non ho un buon rapporto con gli aerei”

Mi accorgo di aver usato un tono brusco, quindi mi affretto ad aggiungere: “La ringrazio comunque. Dov’è diretta?” – accenno un sorriso poco convincente. Non amo la cortesia forzata. Tuttavia nel suo viso c’è qualcosa di amichevole che non trovavo da un po’ di tempo.

“Dove sono diretta? Caro, questa sarebbe una lunga storia…”

Solo ora mi pare di notare nel suo inglese un lieve accento, ma mi è difficile intuirne l’origine. E’ qualcosa che, credo, rimarrà sempre oscuro ad uno straniero come me.

“Mio nipote vive in Italia, a Verona. Non lo vedo da molti anni, da quando ha lasciato Boston. E’ partito per raggiungere una donna, sa, che poi è sua moglie ormai…” – sorride leggermente, mentre il suo sguardo fissa un punto distante. Pare che un ricordo stia attraversando la sua mente in questo istante, lasciando una scia ancora visibile. Forse un amore lontano perso nei meandri della gioventù.

“Ma poco importa. Vado a trovarlo perché è molto che non lo vedo, questo è tutto. È mai stato a Verona?”

Rimango un attimo soprappensiero.

“No, non ci sono mai stato…”

“Però lei è italiano, o sbaglio?”

“Sì, ci sono nato. Ma la conosco ben poco. E’ molto che non vado”

Dopo un istante le chiedo: “Si sente molto dal mio accento? Che sono italiano, dico..”

Mi sorride apertamente. “No, anzi, devo dire che non me ne sarei mai accorta. Semplicemente atterriamo a Milano, e lei viaggia senza famiglia, quindi ho immaginato che non potesse essere un viaggio di piacere; e tuttavia non sembra che si sposti per lavoro”

Rimango un momento interdetto.

“E’ bello tornare da dove si è partiti, la capisco. Io manco da molti anni ormai”

Di nuovo il suo sguardo sembra perdersi in lontananza.

“Non la disturbo oltre. Ormai stiamo per arrivare, devo prepararmi al mio primo atterraggio. Ora sono tesa, molto tesa!”

Le sorrido, in modo sincero. Non riesco ad aggiungere nulla. Mi giro verso il finestrino e guardo la città che si avvicina, sbucando all’improvviso dalla pianura. Quindi non sembro in viaggio per lavoro. Sarà perché mi manca la valigetta, o la cravatta – di sfuggita getto un’occhiata involontaria al tizio seduto aldilà della vecchietta.

“Informiamo i signori passeggeri che atterreremo all’aeroporto di Milano Malpensa tra pochi minuti. Si prega di tenere allacciate le cinture e spegnere i dispositivi elettronici. La temperatura è di 25 gradi, soffia un leggero vento da nord-ovest che potrebbe causare qualche turbolenza durante la fase di atterraggio. Vi invitiamo a mantenere i vostri posti”

La vecchietta si gira verso di me e mi sorride, come a dire che va tutto bene – in realtà le sue mani, strette ai braccioli, stanno tremando.

Prendo la busta che ho lasciato sotto il sedile e tiro fuori di nuovo il pacchetto di Citelli. Ne mangio una. Non mi basta, quindi ne prendo un’altra. D’un tratto sento il bisogno di divorare l’intera scatola – forse così, penso, il tempo scorrerà più velocemente. O forse tornerà indietro – una volta per tutte, farà retromarcia.

Risistemo il pacchetto nella busta e attendo l’atterraggio. Come il pilota aveva annunciato, l’aereo subisce qualche oscillazione di troppo mentre si avvicina alla pista. Le ali si inclinano pericolosamente da un lato e dall’altro, ma nonostante l’effetto sia surreale so bene che è tutto sotto controllo. E’ qualcosa di perfettamente normale.

L’aereo atterra e la vecchietta di fianco a me tira un sospiro di sollievo – mi sorride nuovamente.

“Anche questa è andata”.

Mi fa un certo effetto pensare agli aerei in questo modo. Come mezzi di trasporto. E’ qualcosa che non smetterà mai di stupirmi, e di inquietarmi al tempo stesso. Chissà come dev’essere per lei.

Il pilota manovra il velivolo fino al luogo predisposto per lasciarci scendere. Prendo il pullman, e saluto l’anziana signora prima di perderla di vista nella folla dello scalo milanese.

credits

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