L’ arte del Washoku

Il termine giapponese ”Wa” significa armonia, pace, semplicità e austerità. Allo stesso tempo esso indica ”Yamato”, ossia il Giappone in sè, come se fosse intrinseco delle qualità appena citate sulle quali si fonda tutta la sua estetica e ideologia. Come Washi è la carta tipica giapponese e Waka è la poesia, così Washoku indica la gastronomia nipponica, considerata in tutto e per tutto gestualità, un rito estetico, arte.

Partendo, ad esempio, dalla porzionatura e dalla disposizione ricercata, geometrica ed essenziale, delle pietanze sulle stoviglie, anch’esse scelte con un occhio di riguardo nell’accostare colori e forme tra cibo e il piatto. Una ponderata distribuzione tra pieni e vuoti, una deliberata incompiutezza, un volontario ritegno e sobrietà.

La volontà di utilizzare cotture che mirano a mantenere le materie prime il più invariate possibile, cuocendole al vapore, alla piastra, e la scelta di alimenti di stagione dimostra l’influenza che la religione ha esercitato sulla cultura gastronomica. Il legame con la natura, e il rispetto di essa, deriva dalle credenze shintoiste che affermano che ”è presente una divinità (kami) in ogni chicco di riso”, mentre invece dal taoismo derivano i principi fondamentali di ciò che oggi noi conosciamo come ”macrobiotica”. Il termine deriva dal greco e indica la longevità, e si basa sull’equilibrio  tra i cibi considerati ”Yin” e quelli ”Yang”. Nel Cinquecento, con l’arrivo dalla Cina del buddismo, venne emanato un decreto che proibiva di cibarsi della carne e questo portò al consumo principalmente di cereali, ortaggi e pesce crudo.

Dalla Cina, oltre alla religione, erano già precedentemente stati importati in epoca Yayoi (250 a.C- 300 d.C), i metodi di irrigazione e di conseguenza il riso. I primi abitanti pescatori insidiatosi sulle coste utilizzavano proprio quest’ultimo come metodo di conservazione del pesce crudo, che veniva disposto tra due strati del cereale acidificato. Ai tempi non veniva ancora consumato così come oggi conosciamo il sushi. Esso si diffuse in epoca Heian (794 d.C- 1185 d.C) quando, con la fioritura delle arti pittoriche e calligrafiche, si sviluppò anche quella culinaria. A Kyoto, la capitale, il sushi divenne la pietanza d’élite dell’ aristocrazia, una vera e propria moda che dilagò e si espanse in tutto il paese, fino a raggiungere Occidente solo nel 1953, quando il principe Akihito lo offrì ad alcuni ufficiali americani durante un ricevimento all’ambasciata giapponese di Washington.

L’influenza religiosa ha portato con sé anche una buona dose di scaramanzie e superstizioni. La devozione e l’attenzione nei confronti della natura è visibile nell’utilizzo di bacchette di legno ohashi e non delle classiche posate occidentali. Tagliare e infilzare il cibo sono considerati atti di violenza. Non bisogna mai incrociare le bacchette o appoggiarle sul tavolo senza utilizzare gli appositi hashioki (poggia-bacchette) o un tovagliolo ripiegato. È considerato di cattivo auspicio offrire il proprio cibo ad un altro commensale utilizzando direttamente i bastoncini perché, secondo alcune credenze, in questo modo i monaci si passavano le ossa dei defunti. Il 4 Agosto, sempre in onore di questi utensili, nel tempio di Hie a Tokyo, si festeggia la cerimonia funebre dei bastoncini in cui vengono ammucchiati e bruciati accompagnando con canti e balli.

Il cibo, dunque, dovrà già essere stato precedentemente tagliato da un bravo maestro del sushi. Questa disciplina è considerata in Giappone un’arte al pari dell’artigianato, del design e della pittura. La lunga formazione consiste nell’apprendimento di 13 tipi diversi di taglio tra cui il sakura, in cui si imitano le forme dei fiori, sagakagi, una spirale continua, matsuba giri, ad ago di pino. Anche il coltello del sushi incarna i principi dell’estetica ”Wa”, in quanto non possiede un manico ergonomico come i nostri occidentali, ma una forma lineare, semplice, in modo tale che possa essere impugnato da chiunque e in qualsiasi modo per eseguire gli svariati tagli. Inoltre esso è personale e lo chef utilizza esclusivamente il proprio.

Il tema delle quattro stagioni e il legame con la tradizione sono visibili anche nei dolci tipici Wagashi. Inizialmente accompagnavano la cerimonia del tè, ma essi non hanno nulla a che vedere con il concetto occidentale di dessert. I loro ingredienti di base sono lo zucchero di canna, pasta di fagioli azuchi, farina di riso e agar agar, dunque molto dolci proprio per smorzare l’amaro del tè verde matcha. Le forme ricordano i motivi tipici dell’ inverno, primavera, estate e autunno a seconda del periodo dell’anno in cui vengono serviti. La loro preparazione è una vera e propria creazione d’ arte, simile a quello che oggi viene considerato ”cake design”.

Un’altra grande differenza dalla cucina occidentale, che rivela ancora una volta il concetto tipico giapponese di irregolarità intrinseco nel quotidiano, è l’ordine di successione delle portate. Siamo soliti catalogare i piatti in antipasto, primo, secondo, dessert, mentre in Giappone le pietanze sono disposte sulla tavola tutte insieme, affinché sia il commensale a decidere di cosa cibarsi assaggiando senza criterio i vari piatti. Ciò si ricollega immediatamente alla modalità di formulare il pensiero diversa dalla nostra: frasi composte da coordinate e non da subordinate.

Partecipare ad un pasto giapponese, essere invitati a prendere posto alla loro tavola ed assaporarne le pietanze attentamente preparate e studiate, è un evento raro per la grande importanza che essi danno a questo vero e proprio rito, una cerimonia. Oggi anche in oriente i ritmi frenetici imposti dalla società rendono difficile cibarsi lentamente. Infatti, se sembra essere la cena il momento ideale in cui la famiglia si riunisce, un’occasione di meditazione, il pranzo viene consumato sul posto di lavoro grazie agli appositi contenitori bentobox diventati popolari pure in occidente. Anch’essi, per giunta, decorati come dei veri e propri oggetti di design.

Credits:

fonti: studio da parte dell’autore

Foto: copertina 

 

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