Legàmi: La colpa del creatore

In principio Mildred scelse di farlo simile a se stessa, con tutta la passione di quegli anni nel disegnare assiduamente ogni sera, tornata dall’ufficio, spesso con gli occhi arrossati dallo smog e dal lavoro. Quel tratto suo particolare che era la linea perfetta di errori incomprensibili, ma errori corretti, messi lì appositamente per riempire un vuoto destinato all’errore, accuratamente scelti. Mildred sapeva bene che sarebbe diventata qualcuno. Lei e le migliaia di fan che nel tempo hanno spuntato il like sulla sua pagina Facebook e sono diventate sue followers, che assiduamente visitano le sue mostre con fare intellettuale e stanno per ore a commentare con arguzia spesso anche solo una riga, un tratto poco più marcato, un neo sul bianco immacolato loro, assieme a Mildred, lo sapevano tutti. Ma prima di essere Mildred il nome sulle locandine delle mostre a Palazzo Reale, al MaXXI, alla Tate Gallery, al MoMA – li ha girati praticamente tutti oramai – era Mildred l’impiegata con contratto a progetto di una piccola impresa di grafica.

Quella sera scelse di farlo simile a se stessa. Si sedette alla piccola scrivania – la grande Mildred – con in mano la matita e sotto il mento un A4 bianco di paura, orizzonte vuoto senza colore. Disegnò per alcune ore, ritoccò, corresse, cancellò, alla fine si stese sul letto incompleta e nulla nacque. Di giorno in giorno la scena fu simile, l’impiegata impegnata il giorno, oziosa la sera, rifletteva sulla giornata e sulla sua vita, mentre la mano proseguiva nel disegno che lentamente prendeva forma. Solo sul finire della settimana poté dirsi finita, appoggiando la matita a lato del foglio, ma tanto distante che la figura disegnata non avrebbe potuto vederla. Era sabato sera.

Mildred era avvolta nella vestaglia bianca dall’ampio décolleté come in un peplo che spesso le cadeva da una spalla. Tirò le gambe sulla sedia e puntò il gomito sul tavolo per appoggiare la testa alla mano: tutta la magnificenza di una prosperosa Ipazia che domina la distesa terrestre come una dea. I folti capelli cadevano lunghi, raccolti in un sol fascio di grano bruciato, corvini come gli abissi fruscianti delle fronde alla sera.

«AAAAAAAAAH!» risuonò in tutta la stanza il grido lacerante di disperazione «Perché? PERCHÉ?!».
Mildred sobbalzò per lo spavento e il suo occhio vagò per la stanza in cerca di una direzione da cui quel suono potesse essere giunto. I singhiozzi che avevano seguito il grido sottile continuavano spezzati da sospiri profondi e lamenti. Lo sguardo di Mildred cadde casualmente sul foglio che aveva sotto il mento e si accorse che la figura umana, a cui si era dedicata accuratamente in quei giorni e su ogni dettaglio della quale si era soffermata parecchie ore armata di matita e pazienza, si era scurita e, accucciata su un invisibile terreno, sobbalzava con la testa tuffata tra le piccole mani.

«Che mi venisse un colpo! Che cavolo…» Mildred avvicinò la faccia al foglio tanto che il suo respiro, un po’ accelerato per lo spavento, lo fece vibrare. La figura accasciata scattò in piedi e, per non saper dove voltarsi, tirò un lungo urlo a squarcia gola.
«Basta! Basta! Che hai da urlare?» Mildred tentò di affrontare la situazione razionalmente, anche se di razionale, nel parlare con un foglio, c’era ben poco.
«Mildred, dannata…»
«Che?!»
«Mildred, che sia dannata! La madre che ci inferse così tanto dolore!» disse la figura muovendosi con ampi gesti, come se stesse recitando «Non ti vedo, rivelati, voce misteriosa! Così che potremo coalizzarci contro la grande Mildred e raggiungere la felicità».
«Ma, veramente…» iniziò Mildred, ma subito si arrestò. Intuì – aveva trasceso ogni razionalità in questo passo – che rivelarsi per quello che era non avrebbe portato a felici conseguenze.

«O forse sei un suo fedele alleato venuto qui per infliggermi qualche orrenda punizione per le mie bestemmie? Avanti allora colpisci, colpisci con tutta la tua ira!» la figura batté i piccoli pugni sul petto.

«Devi stare calmo! Non ti voglio fare del male!» disse Mildred ora più incuriosita che spaventata da quello strano accadimento che stava vivendo «Dimmi che problema c’è, magari posso aiutarti».

«Ma come fai ad aiutarmi se neanche ti vedo?! Palesati! Forse sì, racconterò tutto». Mildred si ritrasse dal foglio per permettere alla figura di vederla per intero, sorrise leggermente, poi decise che un’aria più maestosa sarebbe stata più d’effetto e tornò seria. La piccola figura sgranò gli occhi e la contemplò per qualche istante: «Oh, immensa maestosa montagna, la tua bellezza brucia nei miei occhi, ovunque non è chi non intoni il tuo nome in un dolcissimo canto. Rivela il tuo nome cosicché possa tuffarmi nel dolce suono dell’eterno».

Mildred portò una mano alla guancia lusingata e arrossì leggermente, ma subito si ricordò di essere la stessa Mildred che quella piccola figura aveva smesso di bestemmiare poco prima. Tornò di nuovo seria: «Il mio nome non ti riguarda per ora, raccontami delle tue disgrazie» disse, assumendo un tono simile a quello del suo interlocutore.

«Oh, magnifica dea! Le mie sofferenze sono da imputare alla sventura d’esser nato in questa forma e in questo foglio. Devi sapere che la maligna Mildred mi ha creato in solitudine, in questo arido foglio bianco, senza colori né sostentamento. Quale tragica sorte mi toccherà allora? Perché cotanta cattiveria nel creare me, che nulla colpa ho, se non quella d’esser stato messo al foglio». La figura sulla carta parlava con i pugni stretti e la voce profonda e teatrale: «Sei giorni impiegò a compiermi, sei giorni per costruir l’inferno bianco» ed esplose in una bestemmia apposta al nome di Mildred.

Al che ella fu invasa da un insopportabile senso di colpa: non si era resa conto delle fondamenta su cui poggiava quell’odio tanto acceso nei suoi confronti e ora, che la piccola figura le presentava il conto di ciò che aveva fatto, la vergogna più cieca si impadroniva di lei. Sprofondò in un baratro di rimorsi, di se l’avessi immaginato, di sottomissione alla giusta causa della sua piccola creazione. Cosa poteva fare? Ora che il disegno era completato – dopo sei giorni di intenso lavoro – come poteva rimediare al dolore provocato?

Ma certo! Bastavano un po’ di colori, uno sfondo, degli svaghi, magari un po’ di compagnia: servivano le matite, i pastelli, i pennarelli, qualsiasi cosa! Il sorriso le ritornò sulla faccia e con esso la sicurezza. Si fece coraggio: il primo passo era rivelare la sua vera identità, ammettere la sua colpa, scusarsi sinceramente. «Mildred…» in tutto quel turbinio di pensieri, rimorsi, eccitazioni, l’unica cosa che le uscì dalla bocca fu il proprio nome, ma in un tono arrendevole come se stesse chiamando qualcuno che sicuramente non si sarebbe voltato. Con una risolutezza inaspettata si decise a reprimere ogni suo senso di colpa – tutti i buoni propositi svanirono in un nulla d’umanità: la stessa risoluzione dell’uomo a non ammettere responsabilità nei confronti di Dio. «Io sono Mildred,» continuò dopo aver riordinato le idee «creatura ingrata! Io ti ho dato la vita, ti ho messo a disposizione un foglio intero, io ho definito il tuo tratto così accuratamente. Sono stata io a darti la facoltà d’intendere e sempre io ti ho donato il libero arbitrio, finanche alla rivolta. E tu mi ringrazi così! Bestemmi il mio nome, calpesti il credo che ti diede alla vita, con cieca ferocia sbatti la porta che può condurti alla pace. Hai mai provato a chiederti perché? Hai mai pensato che il tuo comportamento non fosse quello giusto? Oh, no, certo! È troppo orrendo ammettere l’errore! Difficile provare a guardarsi intorno! Meglio pretendere che sia la vita a venirti incontro!».

La piccola figura, intimorita, rimase come paralizzata dal terrore. Provò a balbettare qualche sillaba, ma, in vero, il sentimento che seguì al terrore fu l’ira verso quell’enorme gigantessa che si proclamava responsabile del suo dolore e lo faceva quasi con fierezza. Non sapendo che fare, travolta dallo sconquasso di quelle parole, ruppe in un pianto isterico e urlante. La parola non riuscì a prendere il sopravvento sui singhiozzi e tante furono le lacrime che il foglio sotto i suoi piedi si lacerò, fradicio di sale. Come un’onda che sferza la costa per chilometri dopo un terremoto, un inarrestabile senso di colpa lo travolse mentre sprofondava nel molle cratere che si apriva sul foglio.

Mildred taceva, i piedi puntati per terra e le gambe tese. Era vuota come un burrone e piatta come un foglio immacolato, ma quel rimorso d’aver creato tanto dolore la gonfiava ancora. Volse il suo sguardo al soffitto, domandò Perché? mentre la stanza si accartocciava come una bozza mal riuscita.

 

A cura di Davide Paone

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