“Alba pratalia araba”: il copista come contadino di libri

È attorno alla metà del XV secolo che in Germania viene messa a punto quella che sarà una delle più grandi rivoluzioni culturali e sociali dell’epoca moderna, la stampa. Prima, e in qualche caso anche dopo (in questo caso per richieste speciali in senso estetico e nostalgico), ma sempre meno frequentemente, la cultura circola attraverso le mani e gli intelletti di coloro che si dedicano a un mestiere antico quanto la scrittura stessa: l’attività di copiatura. Se oggi in una qualsiasi biblioteca e in una qualsiasi libreria troviamo opere dell’antichità classica (specie latina) è soprattutto merito di molti uomini, solitamente chierici, che dalla fine dell’antichità hanno rivestito il ruolo di tramiti della cultura precristiana e non.
Occorre però introdurre la trattazione mediante una premessa: l’immaginario contemporaneo vuole e in qualche senso esige che il lavoro intellettuale sia sempre più leggero di quello manuale, specie per quanto riguarda il lato della fisicità: siamo decisamente saturi di immagini di eruditi chini sui loro libri e con le mani pulite e candide, che non recano mai i segni dello sforzo; uomini che fanno della loro occupazione un vanto che permette loro di avere del tempo da dedicare a sé stessi, ma evidentemente non alla propria forma fisica, se si giudicano i volti e i corpi di coloro che non sono e non sono stati D’Annunzio. L’intellettuale è costantemente pigro e immobile quanto leggero nel corpo e questa opinione è così diffusa nella società capitalistica a tal punto da formare anche le menti di chi, come la maggior parte della popolazione, non ha nemmeno mai visto da vicino uno studioso al lavoro. Esiste un certo radicato pregiudizio sull’attività intellettuale che sarebbe il momento (se non ora, quando?) di scardinare e gettare nella vasta immondizia del luogo comune: uno dei tanti frutti dell’albero dell’invidia, s’intende.
A dimostrazione di quanto appena esposta basta infatti dire che il lavoro del copista non fu di certo uno dei mestieri più leggeri del medioevo. Per rimanere entro l’ambito delle metafore naturalistiche mi preme affermare che il copista assurge al ruolo di contadino della cultura, e come tale si può definire come il contadino dei libri: ciò appare altamente corretto se si considera l’Indovinello veronese e il paragone contenuto in esso circa la scrittura come semina attraverso l’aratro (la penna) e i buoi (la mano) sui bianchi campi (i fogli, appunto). Per avvalorare tale tesi viene allora spontaneo pensare alle antologie del tempo, chiamate florilegi data la loro somiglianza simbolica a una vasta corolla, o ancora al termine stesso ‘antologia’, che derivando dal greco ànthos significa ‘scelta di fiori’, intesa come ‘mazzo di fiori’. I fogli del copista sono i fiori prodotti dal lavoro di cura e di amore per il materiale con cui si ha a che fare, sono i frutti dell’unico lavoro contadino che lascia le proprie tracce sulla pergamena, sono i nuovi rami di un albero, quello della trasmissione dei testi, di cui ci si prende cura: il termine ‘codice’ deriva dal latino caudex, che letteralmente significa ‘cespuglio tagliato da cui nascono nuovi fiori e rami’.
Il copista svolge dunque un lavoro che secondo la mentalità medievale è percepito come ‘naturale’ e non distaccato dal resto del mondo: la comunità era formata principalmente da tre grandi classi, ossia quella del popolo misto, il clero, i nobili, i quali al tempo fornivano servizio militare. Essendo i copisti per la maggior parte chierici, essi rivestivano un ruolo di pari importanza rispetto a quello del contadino, dell’artigiano, del soldato. Ogni occupazione, anche quella intellettuale, era anzi vista soprattutto in senso fisico.
Altro luogo comune che urge eliminare è la concezione del copista come un uomo assai colto, quasi ‘universale’ data la grande quantità di opere che venivano prodotte o che egli stesso produceva; in realtà, essendo spesso i copisti chierici di bassa o sufficiente cultura (soprattutto nei periodi più bui della trasmissione dei testi, ossia fra VI e metà del VIII secolo), la loro formazione culturale consisteva nel sapere scrivere e leggere, magari senza avere particolari conoscenze. Non dobbiamo dunque immaginarci i copisti come grandi intellettuali: è vero, certi dotti di alta levatura, quali Boccaccio e prima di lui Lupo abate di Ferrières, non disdegnavano trarre delle copie per sé; ma a differenza di tali intellettuali di vasta cultura, i copisti operavano su commissione e non redigevano nuove copie per il proprio gusto personale. Ciò dipendeva naturalmente dalle esigenze di commissione: se il committente era l’ordine monastico stesso o la struttura in cui si svolgeva la copiatura o altri monasteri del medesimo ordine erano necessarie copie, magari aggiornate con note, apparati di commento, nuove scritture, delle opere di Padri della chiesa, di poeti cristiani della tarda antichità, di ricche enciclopedie quali quella universale, del VII secolo, di Isidoro di Siviglia, di scritti di Gregorio Magno o di concili, di Bibbie a non finire, di testi sacri e manuali per l’apprendimento del latino. Era difatti raro che si copiassero opere dei classici, come ci è stato tramandato da spiegazioni scolastiche sempre troppo superficiali: non era scontato che ciò avvenisse. Nei secoli bui del medioevo e sempre nei monasteri con minore disponibilità economiche la tendenza era sempre quella all’economia: se uno scritto non era considerato utile ai fini dell’istituzione monastica non veniva copiato. Questo (ma mi preme precisare non solo questo) fatto causò la perdita di molte opere classiche e tardo antiche che oggi avremmo altrimenti negli scaffali delle nostre biblioteche.
Il luogo deputato alla trascrizione e copiatura di codici era il monastero, o meglio una parte di esso chiamata scriptorium. La copiatura poteva avvenire secondo diverse modalità, che dipendevano dalla qualità, disponibilità, bravura di coloro che lavoravano nello scriptorium stesso. La prassi prevedeva che un addetto, anch’egli monaco, leggesse ad alta voce un manoscritto di un’opera disponibile sul territorio, senza dare importanza alla qualità del testimone in questione, e la fitta schiera di copisti eseguiva il proprio compito sotto dettatura. Dobbiamo infatti ricordare che il mondo passato della letteratura e degli ambiti ad essa connessi prevedeva la lettura ad alta voce: il senso di comunità era ben più presente di oggi e i legami con le persone, anche fisici, trovavano spazio all’interno della condivisione di brani letti per un gruppo di persone. Questo accadeva anche al di fuori dei monasteri, ossia nelle città e nelle piazze: ricordiamo le letture che fece lo stesso Boccaccio dei canti amati della Commedia o, un po’ più tardi, sempre per restare in ambito fiorentino, dei poemi cavallereschi che avrebbero trovato grande diffusione presso il grande pubblico. La lettura mentale era questione che non ancora si era sviluppata nella coscienza degli uomini medievali e le opere letterarie stesse non nascevano ancora per la lettura individuale e silenziosa ma per quella pubblica e usufruibile acusticamente; e se l’addetto alla lettura non esisteva e dunque era necessario creare una copia di un’opera da sé, la lettura avveniva per forza di cose mentalmente, ma sempre secondo il criterio di una ‘voce’, in questo caso interna, che il copista si immaginava nella propria testa. Gli errori involontari causati da entrambi i sistemi sono sempre i medesimi e non si differenziano per la fonte della voce, fisica o mentale.
Errori molto facili da commettere, se si pensa alle condizioni fisiche in cui avveniva la trascrizione: gli scriptoria non erano luoghi pieni di luce e studiati appositamente per la copiatura: si seguiva, come per ogni altra attività umana nei monasteri e fuori di essi, il ritmo dettato dalla natura, e con questo anche la quantità e la durata di luce disponibili durante il corso dell’anno. Per loro natura tali luoghi risultavano spesso molto bui, con conseguentemente affaticamento della vista. Un poco di sollievo era fornito dal pluteo, spesso con un’inclinazione di 45 gradi, ossia il banco sul quale era poggiato l’esemplare da copiare e i fogli di pergamena, ancora sparsi, su cui approntare la copiatura, e dal poggiapiedi, l’aggeggio che noi tutti conosciamo e che migliora senz’altro almeno di poco la postura. Come già ricordato nei paragrafi precedenti, il lavoro del copista richiedeva un enorme sforzo fisico, data la posizione innaturale della schiena e del corpo, inarcuato in avanti per permettere il proseguimento dell’operazione.
La differenza con un contadino, alla luce di questo, consiste non nella posizione e nel tempo impiegati, ma nel terreno da solcare (in questo caso la pergamena) e negli strumenti utilizzati: l’arnese deputato alla scrittura consisteva in una penna d’uccello, spesso d’oca, appositamente tagliata e cava all’interno, di modo che l’inchiostro vi potesse risalire con facilità grazie al fenomeno della capillarità. Nella mano sinistra si teneva invece un raschietto, utile per eliminare gli errori che ci si accorgeva di avere creato: la pergamena era infatti un materiale spesso, altamente costoso, ma assai resistente (la maggior parte dei manoscritti conservati oggi sono infatti in pergamena, e breve vita ebbero quelli ancora in papiro), che permetteva dunque un assottigliamento del foglio senza causare buchi. La pergamena consisteva in pelle di animale appositamente conciata, da cui erano eliminate peluria e carni, che veniva successivamente ammorbidita, sbiancata e infine tagliata secondo le esigenze del codice da solcare. La pergamena, magari resa più spessa e resistente, era utilizzata a fianco di cuoio e legno nella realizzazione della copertina dei manoscritti.
Non solo la natura vegetale dunque, ma anche, come la penna d’oca dimostra, la natura animale anima il mondo della cultura medievale; e ancora lo avrebbe animato, dal XIII secolo fino ai giorni d’oggi, con il ruolo importantissimo della carta ricavata dai fusti d’albero. Sarebbe bene pensare a quanta natura c’è in un libro o in un manoscritto e a quanto siamo ancora contadini del sapere pur senza saperlo; ciò che cambia, rispetto al passato, è la larghissima scala: a un’agricoltura intensiva si affianca un altrettanto intenso lavoro di stampa che, se giova all’economicità dei singoli esemplari, ha tuttavia effetti sul valore individuale del libro. Abbiamo ampi prati, e non più aiuole da cui poter scegliere i fiori da cogliere.

Fonti:

Testo: Appunti e dispensa del corso di Filologia Umanistica tenuto dal Prof. Paolo Chiesa presso l’Università Statale di Milano, anno accademico 2016/2017. Sotto richiesta è possibile consultare il suddetto materiale. A ciò si aggiungano conoscenze personali e un vigoroso ringraziamento a Marcello Sessa.

Immagine: gallica.bnf.fr

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.