Mainstream e alternative: orrore e pregiudizio

Siamo nell’era della categorizzazione, in cui qualsiasi minima sfumatura di qualsiasi cosa viene etichettata in modo maniacale. Siamo in un’era in cui, quando qualcuno comincia ad usare un termine a caso per descrivere qualcosa, questo poi si diffonde a macchia d’olio e viene usato spesso e volentieri erroneamente o con troppa leggerezza. Siamo in un’era in cui qualsiasi parola vuol dire tutto e niente. Siamo in un’era in cui bisogna stare attenti a come si parla e si scrive, perché è fin troppo facile fraintendere ed essere fraintesi.

In questa situazione, in cui nulla ha più confini, nulla più è bianco o nero ed esistono così tante vie di mezzo e compromessi, il mondo della musica come si comporta? Esattamente allo stesso modo.

Erano belli i tempi in cui c’erano il rock’n’roll, il blues, il jazz e la musica classica. Era più che vivibile quando c’erano il pop, il rockabilly, la country music, il soul, il metal e il prog. Era ancora accettabile quando c’erano l’hard rock, la psychobilly, il glam metal, la disco, il funky, il punk e la new wave. Adesso abbiamo  la vaporwave, la vegan straight edge, il crustpunk, il nintendocore, il queercore, il math rock e chi più ne ha più ne metta. Il prog metal è diverso dall’alt metal, così come il thrash metal, il black metal e il death metal; il synth pop non ha niente a che vedere con il power pop; la dubstep, la minimal e la jumpstyle non sono neanche vicine di casa; occhio a confondere il reggae, il reggaeton e il ragtime perchè sono tre mondi completamente separati. E guai a definire una canzone hip hop invece che rap, si rischia la lapidazione. Ora cosa dovremmo farcene di tutti questi generi musicali non si sa, ma ormai le cose stanno così e così ce le dobbiamo tenere.

Tutta questa accozzaglia di generi, sottogeneri e sottogeneri dei sottogeneri di solito viene divisa in due grandi categorie: quella della musica commerciale e quella della musica alternativaLa prima categoria è storicamente quella che racchiude tutta la musica adatta ad essere trasmessa in radio e in televisione – sottinteso, senza il rischio di disturbare od offendere nessuno -. Nei primi tempi in cui si creò questa distinzione, i nessuno da evitare categoricamente di disturbare od offendere erano governi, religioni e tutte quelle persone fastidiosamente conservative e tradizionaliste che lottavano per continuare a vivere nella loro monotona tranquillità. Allora la libertà di espressione non era ancora molto affermata e la musica considerata alternativa era praticamente illegale e veniva trasmessa da radio clandestine (se vi interessa l’argomento guardate il film I Love Radio Rock). Ora che, fortunatamente, la libertà di espressione in ambito musicale esiste (anche se non universalmente) e il campo di tolleranza della musica commerciale si è molto esteso, il criterio secondo il quale la musica viene inclusa in questa categoria è un’altro: i soldi. Dopotutto lo dice chiaramente il termine. La musica commerciale è quella che vende, quella da zero spesa e massima resa, quella che viene trasmessa in modo ossessivo dalla maggior parte delle radio e dalla televisione, quella che piace a tutti (o, almeno, quella che l’industria e il mercato musicale hanno stabilito dovesse piacere a tutti). Il parolone inglese mainstream indica qualcosa di convenzionale, largamente diffuso e che va di moda, quindi può essere considerato come un sinonimo, più adatto forse a descrivere il fenomeno da un punto di vista più musicale che di mercato.

E la musica alternativa? A questo punto sembra facile: è quella che non viene trasmessa in radio e in televisione, quella che non riempie gli stadi, quella che non vende miliardi e miliardi di copie. Teoricamente è così.

Parliamone. E’ senz’altro così dal punto di vista del mercato, ma dal punto di vista della musica in sè? Esistono ovviamente degli estremi che, anche musicalmente, sono inequivocabilmente mainstream alternativi, come il pop (chiamiamolo così, per comodità) delle grandi star che noi tutti, volenti o nolenti, conosciamo nel primo caso, e invece quei generi musicali improbabili conosciuti solo da tre persone su tutto il pianeta, musicisti compresi, nel secondo caso. Ma ormai in mezzo a questi due casi si trovano talmente tante sfumature ed eccezioni che ormai vengono i dubbi anche su questa distinzione. Siccome la definizione di commerciale ha ormai assunto un significato negativo per la maggior parte dei musicisti, ora tutti rincorrono la singolarità, cercano di inventare nuovi e strani generi musicali per definire la propria musica, che dev’essere per forza alternativa; si sfondano anche i principi della musicalità stessa pur di creare qualcosa di unico: ci sono, ad esempio, due musiciste giapponesi, le Syzygys, che suonano microtonal pop music, ossia utilizzano una scala microtonale di 43 unità (la musica occidentale è costruita su una scala di “soli” 12 toni). Sembra geniale ma, nella pratica, all’orecchio risulta semplicemente come musica stonata. Un’altro esempio lo riscontriamo nella scena della musica psichedelicafree jazz o semplicemente improvvisata, che sta prendendo piede soprattutto in Europa. Gruppi per cui sembra sia illegale produrre qualsiasi cosa si avvicini ad una melodia; si piazzano lì con gli strumenti e distruggono le orecchie (e non solo) degli ascoltatori facendo cose a caso. Degni di menzione sono anche gruppi come gli statunitensi Sunn O))) (classificati come drone doom metal), capaci di passare un intero concerto suonando solo un accordo, talmente basso da entrare a fatica nel campo di udibilità umano, al buio, immobili e vestiti da becchini. Ok essere alternativi, ma la musica riusciamo a farcela stare in mezzo a tutta questa “originalità”?

Vogliamo parlare del fantomatico indie? Non esiste, una volta per tutte. Il termine “indie” è stato coniato con la nascita delle prime etichette discografiche indipendenti (independent > indie), quindi tecnicamente è solo una categoria che racchiude la musica prodotta da queste utlime, a prescindere dal genere. Non c’entra niente con quella musica pop/rock dalle influenze multi-etniche che andava molto di moda tra gli hipster negli anni scorsi. Niente di alternativo.

Diciamocelo, oramai è tutto talmente alternativo che non lo è più niente. Ci sono gruppi che si autodefiniscono alternativi  e suonano le stesse identiche cose che suonano altri mille gruppi mentre altri, definiti come mainstream, riescono a dare alla loro musica, tutto sommato “normale”, un carattere ed una personalità unici. C’è musica alternativa che è commerciale e musica mainstream che non lo è.

Questa riflessione è nata dalla recente uscita di due album che incarnano perfettamente lo stato di confusione che esiste oggi tra il commerciale e l’alternativoAutomaton dei JamiroquaiHumanz dei Gorillaz. Premettendo che sono entrambi gruppi da cui non si sa mai cosa aspettarsi, hanno fatto entrambi cose dal grande successo commerciale, che al primissimo ascolto possono apparire mainstream, ma al contempo, sotto un’analisi più attenta, rivelano un carattere estremamente alternativo, a chi lo sa cogliere.

Probabilmente, ora come ora, sarebbe più utile e interessante fare una distinzione più netta tra la musica fatta per la musica e la musica fatta per l’immagine e i soldi. Ovviamente sono pochi quelli che dichiarerebbero apertamente di fare musica solo per diventare ricchi e famosi o per non “finire sul lastrico”, è così facile tirare in ballo la cara vecchia “passione per la musica”, ma ad un orecchio attento la differenza può risultare abbastanza evidente.

 

Fonti:

 

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