Macbeth e Julien Sorel: ambizione e solitudine

L’ambizione è il voler uscire dal proprio ambitus, il proprio ambiente, la provenienza sociale. Implica quindi, se non presuppone, il credere che le società siano fluide e mobili, ma che soprattutto questa possa essere accettata ed accettabile. Necessariamente richiede che l’individuo strappi da sé il cordone ombelicale che lo lega alle sue origini e si proietti in un mondo altro che non potrà assorbirlo mai completamente, che quindi si condanni autonomamente alla solitudine, unica compagna, per quanto paradossalmente, dell’ambizione. A questa viene spesso e non casualmente associata la condizione moderna. Il personaggio ambizioso è il personaggio moderno. Mastro Don-Gesualdo di Verga e Georges Duroy di Guy de Maupassant lo sono. L’ambizione strappa l’uomo dal proprio tessuto sociale, dalla circolarità ineluttabile della vita antica e lo rende unico e solo, moderno quindi, atomo di una società liquida, per utilizzare parole più grandi delle nostre.

Ma adesso i nostri due ambiziosi: Macbeth e Julien Sorel. Il primo protagonista dell’omonima tragedia shakespeariana, come se servisse ricordarlo, il secondo del romanzo di Stendhal, Il Rosso e il Nero. Cosa ambiscono i nostri? Una posizione, potere, un nome. Ma quale posizione, quale nome? Uno specifico? No. Potremmo ardire dicendo che ambiscono ambire. Il desiderio dei nostri personaggi è talmente smisurato e non misurabile che non ha un punto d’arrivo, un obiettivo reale. Si alimenta delle sue stesse conquiste. Julien da figlio del carpentiere diventa precettore di nobili di provincia, poi segretario di uno dei più importanti Marchesi di Francia e quasi marito della figlia dello stesso. E ad ogni passo in avanti disgusterà ciò che aveva raggiunto prima, almeno fino a quando queste conquiste gli sembreranno reali. Macbeth, barone di Glamis, che poi sarà di Cawdor e ancora Re, non può fermare i propri desideri nel momento in cui gli viene dato un nome, un motivo per ambire. L’ambizione sembra diventare la tragedia della possibilità. Se le streghe non avessero predetto il futuro di Macbeth lui non avrebbe versato il sangue di Re Duncan.

Fino ad adesso abbiamo associato l’ambizione alla tragedia, ma è necessariamente così? Come abbiamo detto l’ambizione strappa dal proprio tessuto sociale. Quindi vengono a cadere le regole morali e le norme che lo caratterizzavano. Ovviamente non si adottano quelle del luogo di arrivo, che si rigettano in quanto imposizioni e che male si coniugano con lo spirito ben poco eteronimo dell’ambizioso. Questo è quindi privo di leggi, sia esteriori che interiori, che ne dettino o regolino, ma soprattutto limitino, le azioni. Ed è qui che subentra la tragedia. Non vogliamo tirare in mezzo la più antica forma di ambizione, la ybris greca, dovremmo mettere in mezzo Fato e Dei, e non vogliamo. La nostra questione è tutta umana. L’uomo che ha vomitato i limiti e le norme non ha motivo di non superare quelle degli altri. Può liberamente essere ubermensch. Uccide e fa uccidere senza che nulla gli si possa imputare. E così l’ambiguo Sorel compra una coppia di pistole e spara due colpi di pistola alla sua ex-amante Madame de Rênal, rea di aver esposto i suoi intrighi al Marchese. Così Macbeth manda a morte mezza Scozia.

Se questa è la tragedia per il mondo che subisce l’ambizioso deve ancora consumarsi quella che subisce lui stesso. Che prenda forma nei rimorsi e nella follia, come per Macbeth e la sua Lady, o nella giustizia degli uomini, Sorel viene ghigliottinato, poco cambia. Ciò che conta è che avvenga. La trasgressione viene punita, e non perché sia giusto punirla, ma perché l’ambizione di un uomo solo non può ri-plasmare il mondo che lui stesso vuole scavalcare e che quindi lo mette a tacere quando e come può. Facendo risorgere in lui gli insegnamenti dimenticati o con la più semplice condanna a morte. Da qualche parte l’ambizioso sa che non c’è altro fine alla sua storia che non la morte, per questo brucia i ponti che gli permetterebbero di tornare indietro, per andare avanti fino alla fine. Si nega finché può la verità, l’aspra verità, la stessa che invoca Danton nell’epigrafe al romanzo. E per quanto brucianti e affascinanti siano le storie d’ambizione, e per quanto vorremmo che riuscissero, noi moderni tutti ambiziosi, sappiamo bene come finisce la storia: male.

 

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