“COSA POSSO SERVIRLE, SIR?” “UN PO’ DI GORE, GRAZIE”

L’horror, insieme alle sue numerose sottocategorie, è il genere cinematografico che più facilmente può essere esposto alle critiche, tanto fondate quanto ingiustificate.

Per la sua stessa natura porta sulle pellicole contenuti controversi, che possono suscitare nello spettatore disturbo o perfino disgusto, specialmente in quello non troppo avvezzo al genere o critico nei confronti di una materia che ha proprio lo scopo di provocare disagio o spaventare.

In tutta onestà, è difficile dare loro completamente torto: la linea che separa un horror che fa arte, da uno che mette in scena solo sangue e violenza gratuita, è spesso così sottile da non permettere confini sempre evidenti. Nonostante il titolo dell’articolo, il tipo di horror a cui farò più riferimenti non sarà quello gore o splatter, ma quello che calca la mano sulla componente psicologica, che porta all’estremo l’esasperazione mentale tanto dei personaggi quanto degli spettatori.

È però necessaria una precisazione: sebbene il cinema d’orrore non sia certo l’unico a mostrare una materia scomoda, credo che solo questo genere intrattenga un rapporto così viscerale con la violenza (sia fisica che psicologica), elevandola a punto fondamentale della pellicola.

Avviene dunque che alcuni film, caratterizzati da contenuti più spinti rispetto ad altri, grazie alla loro fama nera nutrita da commenti e pensieri nati in rete, ricevano da un lato grandi elogi da persone che li elevano al rango di incredibili prove cinematografiche o di espressione di libertà personale, dall’altro fiumi di inchiostro che li accusano di essere niente più che pellicole pretestuose, che cercano di fare arte indossando il travestimento della violenza fine a se stessa.

Kynodontas

E no, non sto parlando di quei film che portano sulla copertina la dicitura “il film che ha terrorizzato l’America”.

Per chi vuole farsi un’idea più completa del tipo di titoli di cui si sta parlando, consiglio la visione di queste pellicole: il francese Martyrs, l’australiano Wolf Creek 2, il greco Kynodontas, l’americano Happiness, l’italiano Salò, o le 120 giornate di Sodoma, il giapponese Visitor Q – a parer mio, l’opera più disturbante dell’intero mosaico – e, per concludere, il serbo A Serbian Film, appunto. Molti altri potrebbero essere inseriti in questa lista, ma è inutile peccare di ridondanza, e ognuno sarebbe degno di occupare un articolo a se stante.

Prendiamo il caso del film serbo: il regista Srdjan Spasojevic riempie la sua pellicola con sangue, sesso, stupri, infanticidi, scene pedofile, omicidi e alcune parti che, se non fossero frutto della finzione e degli effetti speciali, non avrebbero nulla da invidiare al peggiore degli snuff movie.

Intervistato sul suo film, egli risponde “Questo film è il diario delle angherie inflitteci dal Governo Serbo, il potere che obbliga le persone a fare quello che non vogliono fare, [gli spettatori] devono sentire la violenza per capirla”. L’argomentazione, difesa come una verità scientifica dagli estimatori del regista, è di sicuro interesse e permette di rivalutare l’intera pellicola guardandola sotto una luce differente.

Tuttavia, in che misura è vera e, sopratutto, quanto può giustificare la visione a cui si viene sottoposti?

A Serbian Film

Questo è il punto cruciale. Chi critica il cinema horror lo fa per una mancanza di conoscenze, per un’involontaria ignoranza, o perché riesce a vedere, assumendo una posizione più distaccata e disinteressata, ciò che si cela dietro questo genere cinematografico? Credo che dipenda dai casi: è inevitabile che, talvolta, il giudizio si faccia gratuitamente negativo e che l’unica spiegazione sia il tipico “è un film troppo violento”; sarebbe però sbagliato negare che alcuni registi utilizzino la macchina da presa come unico sfogo alle loro fantasie malate, mostrando contenuti dai dubbi valori artistici e che poco hanno a che fare con l’estetizzazione della violenza.

Personalmente non ho dubbi sulla questione e difendo la necessità che l’artista abbia totale libertà nel proprio lavoro, così che possa esprimere nel modo che ritiene migliore le sue idee e la sua visione del mondo. Non c’è dubbio, ci saranno registi che premeranno il pedale dell’acceleratore per il solo gusto di poterlo fare, girando film per lo più fastidiosi, ma dimenticabili e (si spera) dimenticati.

L’alternativa potrebbe solo essere una censura impossibile da calibrare: quando un certo contenuto può dirsi troppo controverso? Come si può limitare la libera espressione, decidendo arbitrariamente cosa sia di buon gusto o, peggio ancora, cosa sia arte?

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