“Nel guscio” di Ian McEwan

Non vi sveliamo nulla, se diciamo che la storia è quella di un nascituro. Si capisce dalle primissime pagine: un bambino ancora nella pancia della mamma, le ultimissime settimane e la capacità di captare tutto ciò che accade fuori.

È effettivamente così, viene da chiedersi? No, davvero: è un dubbio che si insinua nella mente di chi legge dall’inizio. È possibile captare, da dentro, ciò che accade fuori? E se sì, ciò che accade fuori mentre si è dentro, influenzerà in qualche modo quello che succederà fuori, una volta usciti? Una frase arzigogolata, un po’ contorta.
E questo è un dubbio che il lettore si porterà pagina dopo pagina, fino alla fine.
Ma torniamo alla storia. Un bambino non-nato, concepito da una coppia che non si ama più, innamorato in maniera viscerale della propria madre e che naturalmente detesta il suo amante, nonché il fratello di suo padre. Suo zio, tecnicamente. O in potenza. Scrivendo queste righe la storia sembra quasi banale -tralasciando il suggestivo gioco del dentro/fuori-. In realtà, l’aspetto che colpisce di più è il clima che si respira in questo romanzo, un clima di tensione, di paura, di angoscia che, evidentemente, noi non siamo in grado di trasmettere. Perché questo bambino ha già le ansie che una vita può trasmettere ma tutte, ancora una volta, in potenza. Il che le rende ancora più terrificanti. Si è parlato di questo libro come di un Amleto rivisitato: vero. Ma, a noi, le rivisitazioni non piacciono. Si potrebbe aprire una lunga parentesi sull’imitazione, sul concetto di canone, non lo faremo. Solo un paio di righe. Nel caso specifico, ammettiamo che la storia, l’ambientazione, siano d’ispirazione shakespeareana. E forse anche di più. Il punto è che a noi questo proprio non interessa: da amanti di Shakespeare e da lettori entusiasti di “Nel guscio”, preferiamo farci da parte e, se ce lo consentite, nicchiare sull’argomento. Perché dal nostro punto di vista accostarlo a un classico di tale importanza equivale a rovinarlo.
Chiusa parentesi.

Una storia incredibilmente suggestiva, non c’è neanche bisogno di dirlo. Una madre disamorata, che alla fine risulta odiosa, insopportabile, egoista, vanitosa e davvero troppo problematica. Un padre che scrive poesie, innamorato del proprio talento e della propria memoria, che sembra prestare più attenzione ai classici che al figlio. Un amante sostanzialmente stupido. E un bambino che guarda tutto questo con gli occhi di un adulto -unico neo, che denota un’evidente mancanza di realismo. Forse talmente evidente da risultare sfrontata, sarcastica, volontaria-. Un bambino come espediente per raccontare una storia? Forse, ma non basta. Perché oltre a essere suggestivo, il tema del guscio è un angolo da cui la realtà appare deformata e incredibilmente interessante.
Un esercizio di stile, questo romanzo. E su questo non ci sono dubbi. Un elegantissimo, raffinato e coinvolgente esercizio di stile. Abbiamo qualche difficoltà anche a definirlo un vero e proprio romanzo, non è così: un pamphlet, una locandina di libertà, paura, incertezze e un manifesto di prosa, di bellissima prosa.
Centosettantacinque pagine di parole ordinate in modo estremamente brillante e di pensieri così raffinati da risultare eccessivi, ridondanti, forse irreali. Ma centosettantacinque pagine che si finiscono in due giorni. E che sembrano essere state scritte più o meno nello stesso intervallo di tempo, il che denota una penna davvero incredibile. Leggetelo: è un libro che non può non piacere. È leggete anche Shakespeare, se non l’avete mai fatto. Solo, fare passare un po’ di tempo. Dimenticate il romanzo di McEwan, lasciatelo cadere nell’oblio e poi, in maniera distaccata, cominciate la meravigliosa opera di Shakespeare. Anzi, fate il contrario, cambiando opportunamente gli aggettivi. Prima Shakespeare. È una questione di priorità e, in un certo senso, anche di rispetto.

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