Settembre, tu mi hai lasciato con un messaggio.

Sparisce il sole, con la fine dell’estate. Il caldo, l’afa, le magliette sudate. Via tutto, nell’arco di due giorni. E sparisce anche la spensieratezza, la sensazione di essere su una giostra, sospesi in aria, senza direzione, senza sapere dove andare, cosa fare. D’un tratto, la vita reale: l’università, gli esami, la monotonia dell’inverno. Il 24 agosto ed è inverno. Il 24 agosto. La gente continua ad andare al mare, a vestire con abiti di lino, a indossare scarpe aperte, ma è inverno. Stridenti visi abbronzati negli uffici, aneddoti sulle vacanze, rimpianti, e poi c’è quel ristorantino tanto carino proprio sul mare… Da tornarci, a gennaio, quando fa freddo e il mare è incazzato. L’estate è come una bolla sospesa in aria: tutto quello che succede rimane lì, congelato dai mesi invernali, immobile, bellissimo, irraggiungibile. Un’utopia irrecuperabile. Accettato questo, si può andare avanti. I maglioni, le felpe, i pantaloni lunghi. I cappelli, le sciarpe, i guanti, la pioggia, la neve forse. E via così, anno dopo anno. Le giornate, che sembravano passare in mezz’ora, diventano infinite. Si organizzano feste, aperitivi, cene, pranzi, uscite. Uno dei tanti modi per esorcizzare la consapevolezza che ormai non si hanno più scuse: tu, devi fare l’esame. Tu, laurearti. Tu, andare in ufficio. Tu, prendere la patente. E tu, andare in prima media. L’eccitazione di riempire il proprio astuccio con penne destinate a essere perdute nei primissimi giorni di scuola, i progetti, i buoni propositi.

Il 24 agosto e Roma comincia a riempirsi. Quanto è bella quando manda via tutti i turisti e spalanca le braccia ai suoi cittadini. Settembre è uno strano mese: la gente si aggira per le strade come se non sapesse bene dove andare, con chi, come ricominciare. Eccitazione per quello che sarà, nostalgia per i mesi passati. Voglia di riprendere, voglia di tornare indietro. Paura, ansia, timore, rimorsi.

Ci si dà degli obiettivi: Natale, le vacanze sulla neve, Pasqua e poi è già primavera, e tutto è più bello. Una lunga apnea. Basta stringere un po’ i denti e il gioco è fatto. Nessuno parla mai di novembre, di febbraio, di marzo. Mesi inutili, spaventosamente anonimi. Lunghi. Ad aprile si tira un sospiro di sollievo: “e anche questo è andato!” Si inizia a progettare, a iscrivere i figli nelle scuole estive, a proiettarsi in una dimensione che comincia a prendere forma, a diventare reale. Ma a settembre si ha ancora tutto davanti. L’estate successiva sembra irraggiungibile. Chi può dire come ci si arriverà? Stanchi, frustrati, appagati, fidanzati, sposati, cresciuti. Grassi, magari.

Gli ultimi giorni di agosto sono una tragedia. Letteralmente. Bisognerebbe rinnovare il guardaroba, fare il cambio di stagione, andare dal parrucchiere, studiare, rimettersi in carreggiata. Eppure nessuno fa niente di tutto ciò. Ci si crogiola nella nostalgia di fine estate, si passeggia per la città, ancora mezza vuota, in cerca di qualcosa che ci faccia sentire vivi, di nuovo. Si va al mare, anche se comincia a fare più fresco, ma si va al mare comunque, tassativamente in costume, si fa il bagno e si prende il ghiacciolo. Di notte scendono le temperature, ma si continua a dormire in maglietta e con la finestra aperta. Nessuno osa indossare una felpa, si gira ancora in canotta, è ancora estate da qualche parte.

E comunque, Roma rimane bella. Sempre. I tramonti settembrini sul Colosseo, Piazza Trilussa e Ponte Sisto, non c’è niente da fare: è una meraviglia. E risolleva gli animi, con la sua aria noncurante e quasi felice di ristabilire un po’ di ordine. Castel Sant’Angelo, il Circo Massimo, Villa Ada. È impassibile al caldo, al freddo, all’afa. Toglie il fiato. Leggera, evanescente, antica e moderna allo stesso tempo. Si preannuncia la Roma settembrina più bella che ci sia.

Niente più viaggi, spiagge affollate, nottate passate di fronte al mare, aspettando l’alba. Arriva così, all’improvviso, in un caldo giorno di fine agosto, il momento di indossare i pantaloni lunghi, scrollarsi di dosso i residui dell’estate e mettersi al lavoro. Non ci sono più scuse. Nell’aria non c’è più l’odore della frutta fresca, ormai c’è odore di funghi, di risotti, di polenta. Ed è proprio nell’esatto momento in cui si sentono questi odori che settembre viene fuori e diventa anche un po’ più bello. Ci si rende conto di averlo quasi aspettato, di non aver più voglia di sentirsi il sapore del sale addosso ma di volersi infilare un maglione caldo e bere una tazza di tè. Settembre in questo senso non aiuta, ci tiene aggrappati ai ricordi e alle speranze, non offre nulla di concreto. Ma è delle speranze che si nutre la mente di chi aspetta, di immagini, non di realtà. E allora, con ancora gli occhiali da sole, ci si mette a pensare. E si immagina il prossimo, ancora una volta, come il migliore inverno che possa arrivare.

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