LA POESIA DELL’IMMIGRAZIONE – WARSAN SHIRE E “CASA” SUA

Warsan Shire è una giovanissima poetessa britannica di origine somala. Se il nome non vi è nuovo è perché molto si è parlato di lei e della sua scrittura in occasione dell’uscita dell’album Lemonade di Beyoncé, alla quale Shire ha partecipato come autrice di alcuni dei testi. I suoi libri e le sue poesie hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali e sono diventati stendardi in difesa dei diritti degli immigrati. Warsan Shire parla di immigrazione da immigrata e da sempre nelle interviste esprime la volontà di dare voce a chi voce non ha, a chi viene imbavagliato da una retorica razzista che vuole dividere gli esseri umani per appagare la divorante fame di consensi popolari e potere.

Noi de Lo Sbuffo, nel nostro cartaceo di Luglio, abbiamo deciso di dare spazio a tematiche attuali come quelle dell’immigrazione e dell’integrazione, per questo sembra opportuno condividere con voi questa poesia di Warsan Shire dal titolo emblematico; Casa.

(l’articolo continua dopo il testo della poesia)

CASA

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri solo
quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo
lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.
Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia
Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti
il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.
Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
Nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato
Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre
Nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto

Il
Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro
Le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?
Forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra
le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.
A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda
A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante
Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Una poesia che sembra una fotografia di Steve Mc Curry, il fermoimmagine di un servizio di qualche notiziario della sera, uno spaccato di realtà nudo, crudo, sincero. Una poesia che diventa reportage, testimonianza, vita vera. Informa, illumina, interessa. Casa parla di esseri umani in cammino, parla di tutti noi, migranti alla ricerca di un porto sicuro, di accoglienza e pace. Casa è la storia dei bambini siriani vittime di una guerra infinita e ingiusta,  delle famiglie nigeriane in fuga da Boko Haram, della popolazione albanese che nel 1991 parte dal porto di Durazzo e approda in quello di Brindisi per scappare da un paese in balìa del caos, dei nostri nonni che abbandonano le terre del Mezzogiorno per cercare lavoro lungo i lati del triangolo industriale o sotto lo sguardo severo della statua della Libertà che veglia sul porto americano di Ellis Island.

La migrazione fa parte da sempre della storia dell’uomo che mette la propria anima sulle spalle e intraprende vere e proprie odissee alla ricerca di una libertà negata, di una dignità strappatagli dalle mani e di un pezzo di pane con cui placare i crampi allo stomaco. L’immigrazione porta ovviamente a incontri tra culture diverse e la questione, purtroppo, non è mai stata delle più semplici. Accanto a chi ha un cuore pronto a tendere la mano verso l’Altro, c’è chi vuole ergere muri e difendere il paese da una fantomatica “invasione nemica”. È soprattutto a loro che questo articolo – come presumibilmente anche la poesia di Shire – è indirizzato; a coloro che fanno abuso di espressioni colme di razzismo e populismo come “invasione”, “negro”, “aiutiamoli a casa loro” senza avere minimamente conoscenza di quello che succede, ignorando le cause di questo esodo biblico e chiudendo gli occhi davanti alla sofferenza del “diverso”, dello “straniero”, del “nemico”.

Con parole schiette e pungenti Shire ci racconta la difficoltà di lasciare il proprio paese per traversare l’oceano in condizioni precarie, di come nessuno sognerebbe mai di partire a mani vuote verso l’altra sponda della terra, se il proprio paese non fosse lacerato da conflitti, dilaniato da malattie e messo in ginocchio dalla fame. Nessuno lascerebbe il proprio cielo, gli occhi della propria madre e gli odori della terra da cui è nato se la violenza non avesse inflitto ferite inguaribili sulla sua pelle. Attraverso questi versi abbiamo, inoltre, la possibilità di ricordarci ancora una volta che la realtà che accoglie i migranti non è sempre delle più felici: sguardi di sdegno, inutili polemiche, povertà, razzismo. Tutte queste angherie, però, sono meglio dell’inferno da cui scappano come un mare in tempesta è sempre più sicuro della loro terra abusata e bombardata.

Le immagine evocate dalla poesia di Warsan Shire devono arrivare nitide davanti agli occhi di chi con ipocrisia assassina prega per il figlio che si è trasferito dall’altra parte dell’Oceano alla ricerca di una lavoro dignitoso, ma nel frattempo si bea di ogni gommone rovesciato al largo del Mediterraneo. Queste parole devono risuonare nelle orecchie di chi la domenica mattina si reca alla messa e il pomeriggio davanti alla tv invoca lo scontro di civiltà e ergerebbe muri per sentirsi al sicuro. Casa ci permette di capire che quello dell’immigrazione è un problema più grande di noi che ha cause lontanissime e complicatissime e che quello che possiamo fare, mentre aspettiamo che la comunità internazionale collabori, è tenderci la mano, imparare a conoscerci e risvegliare la nostra umanità.

Credits immagine: Immagine 1, Immagine 2, Immagine 3

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