Roma è una puttana

Il motivo per cui non volevo amarlo era molto semplice: non intendevo farmi carico dei suoi fantasmi. Il peso che mi portavo sulle spalle era già più che sufficiente. Certo lui era bellissimo e amabile in quel modo che ti costringe a buttar via qualsiasi morale o sentimento serio e a perdonargli tutto. Nessuna eccezione. Il tradimento più sfacciato passava per una scappatella al fine di dimenticare la noia di una cena. Ma io lo amavo. E la cosa peggiore era saperlo. Si ragiona in modo molto più equilibrato quando non si è ancora capito una virgola della propria vita. Vai allo sbaraglio, ma vai. Prendi una strada qualsiasi tanto per provare, senza sapere che alla fine ti condurrà comunque da qualche parte. Si arriva sempre da qualche parte anche quando crediamo di essere fermi, di aver preso una pausa. Che presunzione prendersi una pausa dalla vita. C’è tutto il tempo dopo la morte. Combinate qualcosa di terribile, ma per amor del cielo, fatelo. Tanto se non lo fate voi che tentate invano di mantenere pulita la vostra coscienza ci penserà qualcun altro, e credetemi, darà scalpore e si aggiudicherà qualche copertina patinata. Sogno di tutti noi poveri stupidi.

Il fatto è che lui era incredibilmente, magnificamente romano. Di quelli veri, esilaranti. Che hanno sempre qualcosa di assolutamente divertente da dire. Sapevo che non poteva funzionare, non solo per i nostri livelli sociali così diversi. Ma soprattutto per il tipo d’amore, profondamente diverso, che entrambi cercavamo. Lui sapeva che io potevo amarlo in quella maniera incondizionata e folle che usano solo i bambini e i matti. Me ne sarei stata ad aspettarlo sotto la pioggia e vedendolo arrivare con la camicia sporca di rossetto avrei sorriso. L’avrei lavata. Perché quello era soltanto sesso e con noi non c’entrava niente. Non mi avrebbe chiamato nel cuore della notte per dirmi di tornare, avrei dovuto accontentarmi solo di qualche carezza e dei suoi capelli neri da spettinare. Non mi avrebbe sussurrato parole d’amore, ma i suoi più profondi e oscuri segreti per liberarsi di un peso. Per fare a metà con me, sarebbe stato più semplice aprire gli occhi il giorno dopo. Ma io non volevo. Io non sapevo scegliere. Non lo so fare nemmeno ora. Tiro a indovinare, mi butto. Mi faccio mangiare dal buio, trasportare dai marciapiedi diroccati, senza chiedere nulla. Mi lascio vincere cercando di nascondere la mia gioia.

Mi ha chiamato, vorrebbe portarmi fuori a cena con dei suoi amici stasera, per dimostrarmi che non mi tiene nascosta da nessuno. Leggi: voglio portarti fuori e sfoggiarti con i miei colleghi che odio ma nonostante tutto hanno più soldi di me e più importanza perciò tu sei la mia unica rivincita su quei vecchi e le loro mogli obese. So perché ha chiesto a me e non porterà una di quelle sue ragazzine. Loro non riescono a simulare niente che si avvicini all’amore. Io amo anche solo il modo in cui guarda l’orologio. Come se le lancette prima di spostarsi dovessero chiedere il permesso a lui.

Se portasse una di quelle tizie farebbe la figura del giovane che può permettersi una puttana di lusso ma è incapace di portarsi una signora.

Io non sono mia amica.

Ed è per questo che gli ho detto di si.

Solita cena, solite facce, solite battute e soprattutto le stesse bugie da raccontare in queste circostanze. Il dopo cena a casa sua, invece, è stato di gran lunga più interessante.

Devo andarmene. A mezzogiorno comincia il mio turno. Svegliarlo, non svegliarlo o fare finta di non volerlo svegliare con l’intenzione del contrario? Scelgo la terza. Sembra buona ma non lo è. Comincio spostando a grandi bracciate le lenzuola, come se mi stessero per soffocare. Cerco i vestiti con malcelata silenziosità. Ah ecco i miei tacchi. Bè li dovrò pur mettere non posso mica uscire scalza. Toc toc toc toc. Svegliati brutto bastardo! Starà facendo finta di dormire. Meglio così, non avremmo comunque niente da dirci. Sbatto la porta con soddisfazione. Se non eri sveglio, ora lo sei.

Lavoro in questo bar di Roma. Assolutamente chic. Assolutamente caro. Assolutamente copiabile da chiunque. Ma cosa ci volete fare, i segreti non esistono: esistono solo furbi che raccontano a dei meno furbi di avere un segreto. E i meno furbi ci credono, dicendolo ad altri ancora meno furbi di loro. Finché tutti vengono almeno una volta per provare. Per carpire il segreto che non c’è.

Ed è esattamente per questo che godiamo di una così vasta e ricca clientela. Nonché qualche vip che si sente una persona normale e per dimostrarlo pranza qui, con occhiali da sole e nonchalance, stando attento a fare tendenza con le nostre insalatone. Io lavoro qui da poco più di due mesi, non sembrano intenzionati a sbattermi fuori. Intendiamoci, non mi amano e io non amo questo lavoro , ma loro mi tengono buona perché sono affabile con i clienti e sbatto le ciglia con chi ci prova dimenticandomi per cinque minuti della mia morale cattolica. Vorrei ricordare che le mie adorabili scarpe di vernice nera da cinquecento euro si trovano sul suolo più sacro di tutta la storia cristiano-cattolica.

Tuttavia a mio vantaggio va il salario non male per una barista praticamente inesperta che si destreggia come può (e come vuole) e delle compagne di lavoro con cui scambiarsi i turni quando una di noi è innamorata e felicemente ubriaca nel letto di un uomo.

Il locale è piccolo e angusto. Come deve essere appunto un luogo per fare tendenza. Più la gente si struscia con finto disgusto più tutti sono felici. Noi un po’ meno. Non è facile lo slalom tra i tavolini con tazzine di porcellana finissima dipinta a mano, distruttibili con la sola forza del pensiero. Ma qualcosa di questo posto mi piace davvero. Amo guardare queste donne ricche e imbellettate che suscitano la mia invidia, mentre loro guardano me, giovane e bella, che suscito la loro. Amo le loro posture, i gesti lenti ed estenuanti per portarsi il bicchiere alla bocca, per mangiare una tartina, per legare il piccolo cane spelacchiato alla gamba del tavolo di mogano con rifiniture in finto oro. Amo la loro vittoria. Bisogna amarle anche solo per questo. Hanno conquistato un uomo ricco, una posizione e un nome non solamente finendoci a letto, ma facendosi desiderare, costringendoli ad amarle per l’eternità. O quantomeno fingere la cosa più vicina alla felicità coniugale. Loro senza problemi, loro senza orari e padroni. Eppure così sfatte sotto il trucco pesante di mezzogiorno, così vuote davanti agli aperitivi con le olive, loro così sole eppure così fiere. Leonesse di città, madri della mondanità che preferiscono morire piuttosto che ammettere la sconfitta.

Le amo perché non potrò mai essere come loro. Non solamente per il conto in banca, ma per qualcosa di più profondo che mi spinge a legare i capelli con il caldo, mentre loro si costringono a pose finto-naturali sotto il sole cocente. Per la semplicità di indossare un vestito a fiori e sandali, quando il luogo impone tubino e tacco dodici.

Amo starmene qui a imparare i segreti della bellezza femminile passati da secoli e secoli di esperimenti fino a renderci la bellissima donna d’oggi.

Amo Roma, amo le sue donne e i suoi uomini. Amo tutte queste cupole e i luoghi costruiti in alto affinché la gente ci possa arrivare e guardare lo spettacolo sospirando, chiedendosi il perché e per come, chiedendo una risposta alla città o confidandole le sue pene d’amore. Amo queste chiese affollate eppure incredibilmente silenziose; con i loro dipinti più famosi del mondo. Amo Il martirio di San Matteo di Caravaggio. Solo un genio può dipingere un quadro splendido impregnato d’odio e far sì che la gente si scanni per accaparrarselo e una volta accaparrato metterlo in un luogo che guidi e predichi l’amore.

Amo.

Amo troppe cose e per questo soffrirò.

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