Dinanzi alle terme di Caracalla: il canto del cigno del “bello” classico

Il mondo del Terzo Millennio, quello che noi ventenni direttamente conosciamo anche sotto il nome di sigle imbarazzanti come YOLO, inneggia all’artificialità, alla “Barbie girl” che la società tanto vuole che sia la donna, alle finte sensazioni ed emozioni strumentalizzate nelle pubblicità. Eppure qualche romantico nostalgico della bellezza naturale ancora esiste, qualcuno che forse “ballerebbe ancora una volta sui campi”, ed esisteva prima ancora che il problema della decadenza moderna diventasse così accentuato e tragico. Tra questi sognatori stanchi troviamo una personalità unica e tutta italiana: Giosuè Carducci.

Il Vate d’Italia fu uno degli ultimi baluardi del vero amore per il classico e l’antichità: con le sue opere ad imitazione della poesia latina (come dimenticare le Odi Barbare, basate tutte sulla ripresa della metrica quantitativa classica) aggiunte a quelle più originali che raccolgono echi della poesia francese come Rime nuove, Carducci decanta la decadenza dell’antica bellezza ormai perduta e che può solamente essere ricordata nostalgicamente. Di lì a poco infatti, sarebbero nate le prime avanguardie, movimenti di assoluta rottura con il passato e con ideali estetici completamente diversi. Probabilmente il componimento che più rappresenta questo cambiamento epocale è Dinanzi alle terme di Caracalla (1877); il poeta si trova a Roma e passeggia osservando le rovine dell’antica Urbe, in particolare proprio le rovine delle terme. Ciò che è rimasto dell’imponente struttura viene trattato come un gigante immobile ma ancora in grado di mostrare tutta la sua grandezza, di fronte all’ignoranza di una turista che invece di osservarla direttamente, la studia attraverso delle immagini su una guida (un po’ come i turisti di oggi che fanno “x alla decima” di foto dalla stessa identica angolazione dello stesso identico soggetto). I corvi girano quasi come avvoltoi intorno alle terme, come un presagio di morte e di un passato ormai defunto. Carducci parla della Città Eterna come di una donna dormiente, fragile e facilmente attaccabile. Per proteggerla il poeta invoca Febbre, antico nume malefico temuto dai romani; qui, la funzione di questa divinità è quella di proteggere Roma dall’incalzante modernità, allontanando il più possibile la degradazione dei quartieri popolari e delle fabbriche.

La tristezza e malinconia di questo componimento sono nel fatto che una città una volta tanto potente e padrona dell’allora “quasi tutto il mondo conosciuto”, debba essere protetta da una malattia subdola e serpeggiante: preferire morire ogni giorno un po’ per poi risvegliarsi ad ogni alba piuttosto che lasciarsi andare alle mani del commercio e del mondo in avvenire.  Purtroppo per Carducci, questo antidoto velenoso sembra non aver funzionato: oggi le auto girano sfrecciando in qualsiasi punto del centro storico della città, il quale quasi tenta di stringersi a sé per proteggersi dallo smog e dalla cattiva gestione dei comuni. Non sappiamo dire se oggi Roma sia davvero morta o se ancora possa essere salvata, ma possiamo forse garantire che non dorme più tranquilla, sdraiata tra i suoi colli.

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