Verso e parola ne “Il Demone” di Michail Lermontov

Le opere più complesse sulle quali ragionare sono probabilmente quelle che hanno richiesto una vita intera di lavoro, per la stratificazione di significati, sensi e suggestioni che vi si accumulano. Fra queste il poema Il Demone di Michail Jur’evič Lermontov, che lo impegnò dal 1829 al 1841: dai 15 anni alla  morte. Il Demone è tante cose, è la psiche di Lermontov stesso, è una torbida aspirazione di titanismo, è l’inquieto spirito romantico che anticipa il proprio destino sotto le influenze del gotico, è ancora altro. Cosa sia l’opera è tanto complesso da dirsi quanto dire chi sia questo Demone, personaggio ambiguo fin dai primi momenti, e forse fino alla fine.

Il Demone prima di cadere era dell’odio e del dubbio ancora ignaro: viene stabilita nella prima strofa la vicinanza fra “dubbio”, strumento di base della ragione e della conoscenza, e la cessazione della felicità primigenia dell’angelo. Siamo evidentemente in un terreno comune ai due padri della modernità, Leopardi e Goethe, e siamo in anni vicini, ma in una terra molto distante. L’Angelo Caduto vagò per la Terra finché non lo stancò quella monotonia, insensibile alle bellezze del creato, persino alle stelle che splendono come lo sguardo di una giovane georgiana. L’anticipazione della giovane georgiana non è casuale, poiché il Demone si innamorerà della figlia del Re di Georgia, la bellissima Tamara. La fidanzata fra le amiche sedeva: / tra giochi e canti il loro tempo è speso. Così ci viene presentata la giovane, con una suggestiva somiglianza alla Silvia leopardiana, ma non ci spingeremo oltre nel confronto. Che rimanga una suggestione. Il Demone la vede, se ne innamora e decide di farla sua, forse per capriccio, forse per sincero innamoramento, non lo sapremo mai. L’ambiguità regna ed inquieta in questi versi appena successivi all’innamoramento:

Le false parole della tentazione

Nella sua mente egli aveva perduto…

Dimenticate? – Dio non gli dava l’oblio:

E lui stesso non l’avrebbe voluto!

Tamara sta però attendendo il suo promesso sposo, che non arriverà mai, se non morto sul proprio cavallo. Il Demone gli ha suggerito di non fermarsi a pregare ad un crocevia dove è uso farlo per buona sorte ed è stato assalito subito dopo da un bandito. Ma d’altronde, come diceva Goethe, l’arte oratoria del diavolo consiste nel suggerire. Il Demone appare in sogno alla giovane disperata, sconvolgendola e spaventandola, spingendola a chiedere al padre di rinchiuderla in un convento per sfuggire a queste terribili visioni. Ma nemmeno lì Tamara può essere lasciata in pace dal Demone che la raggiunge e la raggira con un commovente giuramento su tutto il Creato, che spinge la giovane a concedersi al bacio fatale. Egli sfiorò / con la sua bocca piena di bramosia / le labbra di lei […] e la bruciò! Il bacio la consuma e la incenerisce. Tamara viene pianta dai parenti e portata in cielo da un angelo che scaccia l’ultimo assalto del Demone che torna senza speranza alcuna e senza amore. Questo finale avvicina ancora di più questo Demone di Lermontov al Mefistofele goethiano.

Un poema complesso e pieno di sfaccettature, ma ci soffermeremo su alcuni aspetti soltanto. Il primo: la parola. L’intera opera è permeata di riferimenti alla parola, alla voce, al grido, all’opposizione sempre significativa di suono e silenzio. Ma la parola non è mai neutra, sembra essere lo strumento principale del Demone che se ne serve liberamente come nella migliore tradizione biblica. Tale ed incontrastato è il suo dominio sulla parola che nessuno gli si può opporre, né la casta Tamara né il cherubino posto a suo custodia. La parola porta con sé la conoscenza, tanto che lui stesso si dirà Re della libertà e della conoscenza, porta con sé il dubbio, che torna in tutti i momenti salienti del poema come elemento che caratterizza la conoscenza stessa. La parola sembra essere invece nemica della coscienza, intesa come certezza, quasi di fede. Ancora il nostro Demone dice di essere nemico dei cieli e della coscienza. Se la coscienza è certa e salda, la conoscenza è incerta e in movimento. Ed è incerta come la parola che la veicola. La parola, unità minima del dialogo, è infatti la radice dell’incomprensione. Tamara chiede al Demone perché egli la ami e perché abbia deciso di confidarsi con lei, e lui le risponde che mai potrà capire il modo ed il motivo per cui lui la ama. La parola veicola un’incomprensione che nasce nella natura più intima e inamovibile dei due personaggi. Il Demone è una creatura infinita ed eterna, così come sono i suoi sentimenti, Tamara è mortale e caduca, e così i suoi sentimenti sono limitati. Forse proprio per questo il Demone sembra ucciderla deliberatamente: per poter amare la sua anima immortale, più simile a lui.

Il secondo elemento: il verso. Complicato e rischioso parlare del verso di un poema russo tradotto, per cui ci limiteremo ad alcune osservazioni soltanto. Lermontov mette in scena un poema, è quasi una performance, che obbliga il lettore a seguirla fino alla fine, facendosi guidare dal verso e dal racconto disteso, dalla descrizione di immagini statiche che poi, come un fulmine a ciel sereno, chiude con versi di oracolare ispirazione. Un esempio. Così conclude improvvisamente una lunga e forse noiosa lista di iperboliche promesse alla giovane: con un raggio del tramonto porporino / i tuoi fianchi, come nastro, io cingerò. Siamo di fronte ad un’immagine assolutamente non convenzionale che sembra anticipare certe corrispondenze ardite del simbolismo o addirittura dell’Avanguardismo novecentesco. Non è un caso che in molti abbiano definito questo poema come un serbatoio di immagini per il futurista Majakovskij. L’intera opera si regge su questo completo disequilibrio fra distensione lirica e chiuse fulminanti ed immaginifiche, quasi a rappresentare la natura instabile ed altalenante del poeta stesso, che sembra aver perso il senno dietro al suo Demone, come il Demone stesso. E non è l’unico: ad aver perso il senno sarà anche il pittore Michail Aleksandrovič Vrubel’ nel tentativo di raffigurare le immagini del poema. E questa era l’ultima suggestione di un poema che ne è pieno e che sfugge a chi lo legge ma gli si insinua fra le ossa, trasmettendo un’angosciosa inquietudine che ha dell’inspiegabile.

(I versi citati sono tratti dalla versione di Paolo Statuti per GSE Edizioni)

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