LA CRITICA DELL’INDUSTRIA CULTURALE E L’ARTE COME LIBERAZIONE

L’avvento della società di massa viene solitamente datato agli inizi del XX secolo e ha caratterizzato tutto il Novecento. L’affermarsi della società industriale, della produzione in serie e del mercato dei consumi di massa ha favorito un ruolo più consapevole e una maggiore partecipazione politica della collettività. Parallelamente il ruolo sempre più forte di strutture e organizzazioni rispetto ai singoli ha suscitato una crisi dell’individuo, della sua autonomia e un suo graduale omologarsi nella società. L’uso dei moderni mezzi di comunicazione di massa, come quelli usati dal regime nazista e dal fascismo, ha costituito un’ulteriore importante componente di tale processo, come il ruolo crescente e pervasivo svolto dalla pubblicità nelle società contemporanea.

Ed è qui che entra in gioco il termine “industria culturale”: un paradigma socio-culturale introdotto e usato per la prima volta da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, due filosofi appartenenti alla Scuola di Francoforte. Il concetto apparve per la prima volta in Dialettica dell’illuminismo per indicare il processo di riduzione della cultura a merce di consumo. Con questa nozione i due filosofi francofortesi volevano mettere a fuoco l’ambigua complessità dell’ideologia capitalista che sembrava sopprimere la dialettica tra cultura e società. Con tale espressione Adorno intende l’apparato dei mezzi di comunicazione di massa come cinema, radio, pubblicità e stampa che, per lui, non sono altro che strumenti di manipolazione delle coscienze e strumenti di potere.

Così questo fenomeno arriva a designare, innanzitutto, una fabbrica del consenso che ha liquidato la funzione critica della cultura e ha soffocato la capacità di elevare la protesta contro le condizioni dell’uomo. Essa fonda la sua funzione sociale sull’obbedienza, lasciando che le catene del consenso s’intreccino con i desideri e le aspettative dei consumatori. Trasformano così gli individui in fruitori passivi, perché seguono le mode e i cliché proposti dalla società. In tal modo si verifica una massificazione, cioè rendere l’uomo contemporaneo non più un “unicum” ma trasformarlo in un essere generico. In questo senso i media non sono una fonte neutra di informazione, ma sono i mezzi attraverso cui l’ambiente culturale veicola i propri valori, disvalori per Adorno: il benessere, l’arricchimento, il consumismo, la moda e il conformismo. Ma Adorno non condanna tutta l’arte, infatti, un rimedio contro l’ideologia di questo mondo omologato viene dalla musica e dall’arte che vogliono cogliere il negativo e la frammentazione nella coscienza degli uomini.

Schopenhauer dice:

L’arte è conoscenza libera e disinteressata che si rivolge alle idee e sottrae l’individuo dalla catena di bisogni e desideri quotidiani”.

Infatti secondo Adorno l’arte, non quella ridotta a merce od oggetto, è l’ultimo baluardo dell’utopia, perché è intimamente attraversata dalle contraddizioni presenti nella società.

Il XX secolo è, quindi, conosciuto per la nascita e la grande diffusione delle società di massa, mentre il XXI secolo ha consolidato tale fenomeno grazie alla globalizzazione. Questo sistema massificato e totalitario è riuscito in maniera più semplice e delicata a predominare sul mercato, a differenza degli altri sistemi totalitari, che con la costante propagazione dei media e dell’industria di intrattenimento hanno diffuso uno stile di vita e di pensiero unico. Tutti fanno più o meno uso di social network come Facebook e Twitter che non sono altro delle ombre benigne di un “Grande Fratello”.

Fonti: informazioneconsapevole.blogspot.it; prezi.com; treccani.it

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