Giacomo Leopardi e le Operette morali

Premettiamo un grande, immenso, gigantesco de gustibus non disputandum est. Premesso questo, parliamo di Giacomo Leopardi. Quello che abbiamo appena detto non si riferisce all’autore in toto: non potrebbe. Esistono dei canoni, a nostro parere, non proprio inclini alla soggettività, quando si parla di letteratura. Ma anche di arte, di musica, di cinema. La soggettività lasciamola alla politica. Ecco, lì se ne può discutere. Ma di Giacomo Leopardi non si può discutere. Perché non pensare che lui sia uno dei più grandi autori della nostra -e non- letteratura sarebbe come rimanere impassibili di fronte a una carneficina: impossibile. E leggere le sue parole senza sentire una stretta allo stomaco e un brivido lungo la schiena equivarrebbe a non avere un cuore e una mente fertili. Cosa che qui non prenderemo in considerazione. Detto e sottoscritto questo, passiamo alla questione del cui citato latinorum, ossia ai gusti, ossia alla prosa e alla poesia: […] non disputandum est, lo ripetiamo per sicurezza. E a nostro parere, o almeno stando al parere del nostro stomaco, della nostra schiena, mente e cuore -fertili, speriamo- il Leopardi più grande è quello delle Operette morali. 

Non vi spiegheremo di che si tratta, qualsiasi manuale di letteratura sarebbe più esaustivo, obiettivo e preciso di noi. Vi basti questa parola: prosa. Una delle più belle che siano mai state scritte.

Un’altra, poi basta: dialoghi. Ne abbiamo scelto uno.

Nessuna particolare ambientazione, tante parole, tantissimi pensieri, due personaggi. Il primo, Tristano. L’altro, un amico.

Tristano ossia Leopardi? Sì, ma poco importa adesso. O meglio, importa ma tra un attimo. Perché il vero protagonista di questo dialogo, più che Tristano, è il cosiddetto secolo decimonono. Secolo del progresso sfrenato, dei lumi, della cultura, del pensiero, della felicità a tutti i costi. Parola d’ordine: ottimismo. E questo a Tristano -e a Leopardi- proprio non andava giù. Perché chi pensa, e lo fa sul serio, non ha parole d’ordine: lascia che il flusso di propri pensieri lo porti in luoghi nascosti, bui e tanto, tanto scomodi. Per sé e per gli altri. E accortosi di essere scomodo -stavolta più per sé che per gli altri-, Leopardi decide di fare di questo un punto di forza, di non alleggerire la propria anima ma di tirare fuori un’arma letale, incredibile, sottile e dolorosa: l’ironia. Ed ecco che l’intero dialogo assume una valenza antifrastica, dice qualcosa intendendo l’esatto contrario e risultando estremamente efficace.  In sostanza, dal dialogo evinciamo che Tristano ha scritto un libro. Un libro pessimista, che tocca con mano tutta l’inettitudine del tanto lodato secolo decimonono. Ecco, adesso importa il binomio Tristano-Leopardi. Perché quel libro sono proprio le Operette morali, tanto criticate perché non hanno adottato la parola d’ordine ottimismo, mettendo in luce un grande, grandissimo pessimismo riguardo non solo al secolo corrente ma anche a quelli futuri. Un giocattolino rotto, insomma, per chi aveva indossato un elegante paraocchi che gli permetteva di godere di ciò che aveva intorno. Cuore e mente non fertili, stavolta sì. E invece il cuore di Leopardi era estremamente fertile, la sua mente rutilante e i paraocchi non riusciva a sopportarli. Tre fattori che combinati insieme hanno dato vita a un vero e proprio capolavoro.

E la poesia? Non è nostra intenzione trascurarla, davvero. Ma ci piace pensare alle Operette come una sorta di liberazione: dopo aver passato l’intera esistenza a mostrare in maniera diretta il dolore attraverso le sue opere, Leopardi per un attimo si rilassa. Cambia rotta, non perdendo di vista la meta. Il fine è lo stesso, cambia il mezzo: via i versi, spazio alla prosa. Via il lamento, spazio alla satira. E l’effetto è davvero incredibile.

Allora, un consiglio da chi ha letto, amato e sentito -nello stomaco, schiena, mente e cuore- Leopardi: tenetevi le Operette per la fine. Come un cioccolatino. Un po’ perché addolciscono tutto l’amaro che c’è nelle poesie, edulcorano il sapore aspro e piccante del Dolore. E un po’ perché non si può partire da lì, Leopardi va letto con ordine, pazienza e tanto amore. Solo così riuscirete a intraprendere un viaggio attraverso le sue opere: l’autore vi prenderà per mano, vi condurrà in luoghi inesplorati della vostra anima e a volte vi lascerà lì, soli con i vostri pensieri. Alla fine, però, vi riporterà a casa. E la casa, per noi, sono le Operette morali. Una casa scomoda, a volte non confortevole, spesso fredda e respingente. Ma basta addentrarsi un po’ e non fermarsi all’immenso salone per scoprire un piccolo angolo caldo, accogliente. Una candela accesa nella penombra, una luce fioca e rassicurante, un camino, una poltrona e una tazza di tè, in caso di pioggia.

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