Arca: la pelle canta e si dissolve in sofferenza

“Anoche te soñé
Tu figura y tus brazos
Anoche te añoré
Aunque no te he conocido aún”

– da “Anoche”

La violenta democrazia della notte reclude la liberazione al cono di fioca luce proiettato dai riflettori, sul corpo che si agita, sulla pelle che ne trattiene un poco fra le gemme di sudore; parti d’intimo che si muovono scomposte, timidamente esposte, in un notturno ballo appena conclusosi. Si trasforma in una promenade verso il mattino, pallido, che emerge dalla voce profumata d’intimo di Alejandro Ghersi, in arte Arca.

È quasi ironico che i suoi primi due album, Xen (2014) e Mutant (2015), siano stati pubblicati per la Mute Records e si caratterizzino per l’assenza pressoché totale di parti cantate, quando non erano sotterrate da una mole inverosimile di filtri; e che invece, proprio ora che l’omonimo LP, Arca, è stato rilasciato con la prestigiosa XL Recordings, Ghersi abbia deciso di affidare una parte sostanziosa, se non portante, del suo ultimo lavoro alle potenzialità espressive della sua voce.

Difatti, “Piel”, la prima traccia, non è introdotta dai gorgoglii elettronici con cui il produttore venezuelano ha costruito il suo stile, bensì da un mormorio, sotto il quale insistono i fini riverberi di chitarra. Questo l’incipit su cui calme si instaurano le prime frasi, in attesa che irrompa nei timpani il suono cavernoso del basso, a costruire un coro di desideri, di rimpianti e di colpe. Arca lascia che le immagini emergano dalla sua voce e pare di vederlo, mentre canta con gli occhi socchiusi dalla passione, mentre chiede che il passato si rimuova dalla sua pelle.

Un inizio che spiazza, che smuove i canoni che finora ci hanno aiutato a riconoscere la musica di Arca, in tutta la sua inquietante bellezza. La successiva “Anoche” è un’altra prova canora, con un testo che anche stavolta si fonda sulle reiterazioni e sulle estensioni vocali, ricordando per certi versi lo stile esecutivo di Björk, denso di emozioni sino allo struggimento carnale e cerebrale. Ritorna qui una sezione ritmica, di chiara ispirazione latino-americana; serve ad Arca per muoversi, seguendo il passo delle sue origini, tra le ferite della notte. Ci si accorge così che l’album segue un percorso ben preciso, dato che con “Saunter” Ghersi si ritrova per l’appunto a bighellonare per le strade, tornando ad urlare, sotto una infausta melodia di corde e distorsioni, “Quítame la piel de ayer”.

Arriva “Urchin”. Ritroviamo per la prima volta l’assenza di voci. I synth iniziali ci lasciano intravedere la figura solitaria di Arca, ormai sperduto, incurvato su sé stesso; le incursioni dei bassi sono come battiti irregolari e autodistruttivi. Questa quarta traccia di Arca è, probabilmente, una delle produzioni più viscerali che il venezuelano abbia mai realizzato. Tuttavia, il silenzio non dura molto e, in una sublimazione dell’assurdismo sonoro che è la musica di Arca, rimaniamo incastrati nella stupefacente “Reverie”. L’amore è qui una trafitta, e il dolore che esala dalle parole di Ghersi sembra echeggiare il romanticismo soul di James Blake.

Si susseguono un altro momento strumentale e un altro canoro. “Castration” è un irruente martellio ritmico, paradossalmente armonico, che pare voler riesumare gli insegnamenti della IDM inglese. “Sin Rumbo”, già ascoltata nell’EP Entranas, è l’apoteosi centrale dell’album, perno di sfogo in cui Ghersi dà pieno spazio ad un canto più che mai toccante; i bassi, gli archi e le disperse incursioni industrial donano alla voce un tono tragico ed isolato.

Arca ha finalmente trovato il coraggio di esporre la sua nudità psicologica mediante il suono della sua intimità, oltre che mediante le visual conturbanti di Jesse Kanda. È una sorta di risveglio artistico, ma anche esistenziale, data l’ampiezza umana della sua musica, sempre più lanciata verso una descrizione dei timori sentimentali e corporali che intaccano l’uomo schizoide del ventunesimo secolo. “Whip” è una breve esplorazione sonora delle potenzialità del dolore, allo stesso tempo temibile avversario del corpo e suo compagno inseparabile. “Desafío”, altro picco emotivo dell’album, è un vortice che ci consente di penetrare nell’abisso che abita la mente e il corpo delicato di Ghersi. Il desiderio di essere completi, dopotutto, accomuna l’intera comunità degli esseri umani, di cui Arca è abile espositore delle recondite debolezze.

La dolcezza, però, nel corso dell’album metaforicamente indicata dal miele, non è impossibile da sperimentare, da far scaturire nel proprio amante. Ciononostante, Arca spesso muta questi momenti di gioia effimera in tremendi processi di consumazione reciproca, cantati con tutta la lussuriosa sofferenza di cui è capace l’uomo. L’elettronica non è mai stata tanto vicina a delineare una melodica filosofia del piacere e del dolore, sino a cadere in una spirale che ci riconduce al principio di tutto, all’origine delle nostre paure. “Child” è il conclusivo ritorno al gioco, alla strumentalità oscura di Arca. Lo spirito del bambino maledetto, che guarda con sospetto il mondo che lo ha cresciuto, rappresenta il dramma eterno dell’uomo, con cui la musica di Alejandro Ghersi ha lo stesso rapporto che il ritratto di Dorian Grey aveva col suo proprietario dannato.

cover di “Arca”


Credits: Img 1; Img 2.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.