Vaporwave: critica virale dal gusto ipnagogico

È un dato di fatto: l’industria musicale è una fornace, un calderone dal quale anno dopo anno vengono sfornate miriadi di cantanti e musicanti, ciascuno parte di una delle categorie altrettanto numerose che ne inquadrano lo stile. Targhe e nomi si susseguono vorticosi, spesso col solo destino di scomparire, perché in fondo inconsistenti, perché fondati su di un’ottica che punta alla fruizione massiccia e ossessiva dei medesimi canoni. L’arte diviene strategia e la riproduzione la sua unica soluzione, come aveva predetto Walter Benjamin. Per questo è importante prendere nota quando, dallo stesso calderone, affiorano segni di malcontento artistico. Ne è un esempio recente la vaporwave.

La nascita di questo genere (o meglio, micro-genere) è stata tutt’altro che umile. Il suo concepimento avvenne nel 2010, fra le trame di un sampler e di una fantasia sarcasticamente nostalgica: Daniel Lopatin, meglio noto col nome d’arte Oneothrix Point Never, rilasciò Chuck Person’s Eccojams Vol.1, un album singolare, che si distaccava dalla follia ritmica che l’ha sempre contraddistinto, lasciandosi catturare dalle sonorità pop e sintetiche degli anni ’80 e ‘90. È così che ci troviamo a passare attraverso campionamenti dei Toto, di Michael e Janet Jackson, Tears for Fears, Phil Collins, Fleetwood Mac e via dicendo, all’interno di una cornucopia che tramuta questi pezzi “d’epoca” in simulacri sperduti nel mondo iper-tecnologico del 2.0.

È qui che nacque la vaporwave, tra improbabili ripescaggi musicali e oscure citazioni videoludiche.

Lopatin tuttavia ebbe solo il ruolo di ispiratore del movimento; già la sua uscita successiva (Replica) lo vide ritornare al suo solito stile. Non fu però l’unico che influenzò gli inizi del genere: alcuni critici musicali hanno considerato la vaporwave come la diretta evoluzione, conseguenza del pop ipnagogico di artisti fantasticamente squilibrati come Ariel Pink, o James Ferraro. In particolare quest’ultimo, col suo acclamato album Far Side Virtual, fu l’artista che probabilmente meglio di chiunque altro ha espresso l’ideologia critica che covava nella genesi della vaporwave.

Far Side Virtual è lo spazio e il tempo in cui viviamo. Consumismo sfrenato e superfluo, ripetizioni incessanti che portano alla scarsità di materiale originale, contaminazioni e convergenze d’ogni tipo, confusione e ignoranza di massa, internet e la società connessa che ne è seguita: il nostro mondo parte dalla frenesia capitalista di cui questi ed altri fenomeni sono una conseguenza, o delle aggravanti, come nel caso di internet. Fenomeni che portano degli indiscutibili vantaggi, sempre come nel caso di internet, ma che posseggono anche delle contraddizioni che rischiano di inaridire le azioni umane. È a queste contraddizioni che guardavano gli artisti che, agli esordi del genere, fecero della vaporwave un corpo musicale ben contraddistinto dagli altri.

Immancabile, se consideriamo che si tratta di un genere emerso dai meandri del web, è la sezione estetica della vaporwave (altresì detta “A E S T H E T I C S”), che ricorda per certi versi i surreali collage animati di Terry Gilliam, con al posto delle immagini vittoriane del regista anglo-americano un intreccio di rimandi classici e digitali, di frasi in kanji e sfondi irrorati del peggior virtual-kitsch. Fa parte del grande esperimento dadaista che la vaporwave aveva intenzione di essere; esperimento che, comunque, non si può dire sia fallito del tutto. In fondo, la viralizzazione ha fatto della vaporwave un tassello imperdibile della cultura virtuale e il thread su Reddit dedicato ad essa serve a farsi un’idea di quanto radicato sia diventato il genere nel discorso online. Il web, in fondo, è il luogo dove non solo una musica del genere avrebbe potuto sopravvivere, ma anche quello in cui essa ha scelto di sopravvivere e proliferare, proprio in quanto duplicato artistico delle sue meccaniche reiterate di consumo e condivisione.

Le “melodie da ascensore” di un album come Floreal Shoppe, prodotto dalla musicista meglio conosciuta come Vektroid, aiutano a comprendere quanto la vaporwave si fondi su di un divertissement, in chiave ironica, sui salti nostalgici che internet ha inevitabilmente portato a compiere, uniti poi ad un’evoluzione, adattata ai tempi della vita digitale, della musica ambientale, fatta diventare una volta per tutte “da arredamento”. Le pareti di casa però non possono essere altre se non quelle di un simulatore come Second Life.

Il risultato può darsi sia vagamente pacchiano, ridicolo, ma è lì il punto della vaporwave: tutto ciò fa parte di una critica consapevole, quantomeno nei casi più “intellettuali” di artisti che hanno avvicinato il genere. Ferraro, Vektroid, lo stesso Lopatin, e altri del calibro di 2 8 1 4, Blank Banshee, HKE, descrivono mediante il loro retro-cyberpop un mondo in cui ogni forma di sapere può essere recuperata, copiata e incollata con l’immediato ausilio di un qualsiasi dispositivo tecnologico. I glitch diventano le necessarie interruzioni nel sistema, non solo di quello virtuale, ma soprattutto di quello storico-culturale in cui abitiamo. In tal modo, la vaporwave vorrebbe far emergere le sopra citate contraddizioni del contemporaneo, scegliendo la rete come il proprio museo dei rimodellamenti temporali.

Dalla vaporwave sono poi nati future funk, vaportrap, mallsoft e la dispersione dell’idea originaria è stata rapida; sia a causa del repentino e prevedibile frazionamento artistico verificatosi, ma anche per via del medium favorito da questi musicisti. L’intento critico si è purtroppo presto affievolito, mantenendosi fervido solo in quegli artisti, come Lopatin, che hanno deciso di intraprendere percorsi musicali più sperimentali e meno stantii. La preoccupante osservazione è che la vaporwave sia stata fagocitata da ciò contro cui voleva porsi, risultandone col tempo banalizzata, perdendo la forza innovativa che l’aveva resa tanto interessante ai suoi esordi, tra il 2010 e il 2011, quando da un lontano lato del virtuale sopraggiunsero gli schermi che avvertivano dei pericoli dell’era tecnotronica.

 

 


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