Abu Simbel il Miracolo del Sole tra suggestione e misticismo

Sabbia lambita dalle acque di un lago. Caldo, cielo terso. Una roccia che sovrasta il paesaggio circostante. Situato sulla riva occidentale del Lago di Nasser, nel governatorato di Assuan, il tempio di Abu Simbel è uno dei monumenti più famosi dell’Egitto, nonché testimonianza fortissima della grandezza del faraone che ne volle la costruzione, Ramses II.

Il tempio di Abu Simbel

Il Faraone intendeva sia intimidire i vicini Nubiani, ma soprattutto commemorare la vittoria nella Battaglia di Qadesh, in cui l’Egitto piegò definitivamente il popolo Ittita. Il complesso, scoperto nel 1813 e violato solo quattro anni più tardi, comprende due templi ricavati dalla roccia: un tempio minore, e il più famoso tempio maggiore.

Il tempio minore sorge a un centinaio di metri di distanza rispetto al tempio maggiore, e il motivo della sua costruzione è tenero e commovente. Il monumento è infatti dedicato alla dea Hathor e alla regina Nefertari, moglie di Ramses e suo grande amore. Ramses era profondamente innamorato di Nefertari, testimoniato dal fatto che egli la deificò quando era ancora in vita, Nefertari viene sempre raffigurata con le stesse dimensioni del Faraone, e che tra i suoi titoli figura eccezionalmente “sovrana di tutte le terre”, corrispondente al titolo “sovrano di tutte le terre” riservato al Faraone.

Il tempio minore di Abu Simbel è l’unico tempio egizio in cui una regina ha la stessa importanza del faraone, come testimoniato da un incisione nella facciata voluta dallo stesso Ramses che recita: “la casa dei milioni di anni, nessuna costruzione simile è mai stata scavata”. In questo tempietto figurano quattro statue di Ramses e due di Nefertari ai lati di esse le statue dei loro figli.

Ma il più conosciuto è sicuramente il tempio maggiore. Quando pensiamo ad Abu Simbel, l’immagine che ci salta subito alla mente è quella della sua imponente facciata, alta 33 metri e larga 38. Su di essa spiccano le quattro statue di Ramses II, alte 20 metri, le quali indossano le corone dell’Alto e del Basso Egitto e il copricapo “nemes”. Ai lati ci sono le statue di Nefertari e della madre del Faraone, Tuya, mentre tra le gambe delle quattro statue colossali sorgono quelle di alcuni dei suoi figli.

Interessanti sono le statue dei babbuini che sorgono sul frontone del tempio. In origine dovevano essere 22, come le province dell’Alto Egitto, anche se una teoria afferma che fossero 24, come le ore del giorno. Attualmente ve ne sono 14, ma la cosa intrigante è che guardano tutte verso est, aspettando la nascita del sole.

Ed è proprio il legame con il sole a caratterizzare l’intero complesso. Per scoprirlo, entriamo all’interno, passeggiando silenziosi nella sala ipostila al cospetto delle grandi statue del faraone che ci osservano mute ed enigmatiche, ferme nelle loro pose millenarie. Sotto i loro sguardi, ci avviciniamo al cuore del tempio, il santuario. Ci sentiamo intimoriti quasi, avvertiamo un senso sacrale che pervade tutta la sala. Procediamo lungo un corridoio in penombra, iniziamo ad avvertire la presenza di qualcosa in fondo ad esso. Ci avviciniamo di più, e scorgiamo quattro visi che ci osservano. Sedute sul fondo del corridoio, stanno quattro piccole statue. Da sinistra raffigurano Ptah di Menfi, dio dell’arte e dell’artigianato; Amon-Ra di Tebe, dio del sole e padre deli dei; Ramses II divinizzato; Ra-Harakhti di Eliopoli, il dio falco con il disco solare sul capo. Ancora il sole, dunque, ma per quale motivo? Siamo giunti cuore del tempio aspettandoci di carpirne il segreto, e invece abbiamo trovato le quattro statue degli dei più importanti del pantheon egizio. Un po’ delusi pensiamo sia “solo” questo, ma poi torniamo ad osservarle con più attenzione.

I loro volti, con le loro espressioni serie e sapienti, guardano verso l’entrata, come se aspettassero qualcosa. Come se suggerissero al visitatore di aspettare, di pazientare, perché grande è il loro potere, e possono mostrarlo.

E così accade. Mentre siamo ancora intenti ad osservare i quattro dei, qualcosa inizia a rischiarare la sala. Ci voltiamo verso l’entrata, e scopriamo che da lì sta entrando un piccolo raggio di luce che punta il volto del faraone. Poi diventa sempre più grande, e illumina parzialmente Amon-Ra, identificato come il sole nascente, e Ra-Harakhti, invece il sole al tramonto. L’unico destinato a rimanere sempre in ombra è il dio Ptah, poiché è anche il dio delle tenebre.

Nasce dalla sapienza e dall’ingegno degli architetti egizi. Essi infatti, con dei precisi calcoli matematici avevano fatto in modo di costruire il tempio in modo che due volte l’anno, 21 febbraio (a volte anche 19 o 20) e il 21 ottobre (a volte anche il 20) i raggi del sole entrassero nello Speos andando a illuminare il volto del faraone, per ricaricarlo di energia. La scelta di queste due date non sono casuali, poiché la prima è il giorno della nascita di Ramses, mentre la seconda quello della sua incoronazione. Con lo spostamento del tempio negli anni Sessanta, effettuato per preservarlo dall’aumento delle acque del Nilo conseguente alla costruzione della diga di Assuan, al momento del riposizionamento del complesso le date si sono spostate di un giorno, al 22 febbraio e al 22 ottobre.

Il santuario diventa così il luogo che più di tutti in Egitto esprime il senso teologico dell’illuminazione del Faraone e della sua unione con la divinità. È uno spettacolo magnifico, suggestivo e ingegnoso, ma breve. Infatti, dopo appena 20 minuti, il santuario ritorna alla sua abituale oscurità, in attesa della prossima data. Nell’ombra in cui è sprofondata nuovamente la sala, ci sembra quasi di scorgere un sorrisetto enigmatico e sapiente sui volti delle statue, come se ci volessero dire che dovevamo solo avere fede nel loro potere.

Nonostante sia frutto di precisi calcoli matematici e astronomici, e di una costruzione architettonica ben accurata, lo spettacolo mantiene quella sua aura suggestiva, mistica, spirituale. E noi non possiamo far altro che rimanere incantati, ammutoliti, da questa maestosità e bellezza.


FONTI

C. Leblanc, A. Siliotti, Nefertari e la Valle delle Regine (1997), p. 111

Abu Simbel

 

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