“GLI INDIFFERENTI”: UNA TRAGEDIA MANCATA

Volevo scrivere una tragedia, ma è uscito un romanzo” queste sono le parole di Alberto Moravia in un’intervista sostenuta poco prima della sua scomparsa.

“Gli indifferenti” è stato scritto tra il 1925 e il 1928 a Bressanone – luogo in cui Alberto Moravia si ritirò dopo nove lunghi anni di malattia, di sofferenza e dolore – e pubblicato l’anno dopo nella casa editrice Alpes di Milano. Il romanzo racconta le peripezie della famiglia Ardengo costituita dalla madre Mariagrazia e dai figli Michele e Carla intersecati con le vicende di due personaggi altrettanto significativi, Leo Merumeci e Lisa.

Leo è l’amante di Mariagrazia, ex amante di Lisa e successivamente amante di Carla. Non prova alcun sentimento o interesse né per i suddetti personaggi femminili né per le vicissitudini riguardanti la famiglia, la società e la borghesia di cui fa parte. Leo è attratto unicamente dal vantaggio economico e dalla prosperità finanziaria. Asservito dalla sensualità e dal potere, tiene le fila di tutti i personaggi raggirandoli secondo uno schema prestabilito. Caratterizzato dall’ipocrisia e dalla convenzionalità, Leo è il personaggio che incarna la corruzione contro cui i fratelli Ardengo si confronteranno.

L’indifferente per eccellenza risulta Michele – che prova ribrezzo nei confronti del nucleo famigliare, dell’ambiente che lo circonda e della borghesia considerata povera, priva di valori, di speranza e di sogni. Ed ecco l’indifferenza: compiangere un mondo esiguo e limitato, una vita mediocre, una società ingrata senza combattere. La ribellione viene vinta dalla noia. Michele rappresenta la coscienza in crisi, la mancanza di adattamento e la perdita dei valori morali. L’odio nei confronti di Leo non si rivelerà reale e l’azione finale – l’omicidio fallito – porterà alla luce la sua inerzia.

A differenza del fratello, Carla proverà ad allontanarsi da quella comunità corrotta, ma il suo tentativo fallirà a causa della sua vicinanza con Leo. In qualità di sua moglie, la farà rientrare all’interno delle linee borghesi che tanto disprezza.

È manifesto il nesso che intercorre tra il grande romanzo di Moravia e il teatro.

La costruzione dei capitoli è realizzata con l’entrata in scena di un personaggio riflettendo esattamente l’andamento teatrale settecentesco, terminandola con l’uscita dello stesso o di un differente protagonista.

La descrizione scenografica è ben dettagliata. Lo spazio rispecchia il dramma borghese di Henrik Ibsen: tutta la vicenda, infatti, si svolge all’interno del salotto borghese della villa appartenente alla famiglia Ardengo. Gli spazi sono caratterizzati da un effetto di luce e ombra. Elementi peculiari della mobilia o semplicemente del corpo dei vari soggetti vengono messi in risalto grazie all’illuminazione di una lampada o dei raggi solari, oppure vengono messi in secondo piano lasciandoli nell’oscurità.

L’azione si sviluppa entro 48 ore: un tempo relativamente breve nonostante superi le 12 o preferibilmente le 24 ore tipiche della poetica aristotelica. Nell’opera, spesso, ci troviamo di fronte a dialoghi dei personaggi che risultano artefatti, artificiali. Vengono messe in luce la finzione e la recita come parte fondamentale dell’esperienza umana che risulta paradossalmente estremamente realistica in quanto utilizzata da ogni uomo almeno una volta nella vita.

Mariagrazia non si rende conto delle parole fittizie da lei pronunciate, per questo motivo le viene conferita l’etichetta della donna patetica e ossessiva. Mariagrazia rappresenta così il perbenismo borghese e l’ipocrisia che caratterizza la società in cui vive.

Ogni personaggio viene caratterizzato da una maschera – tecnica teatrale risalente all’antica Grecia. Il finale è tragico: Michele, persuaso dalle provocazioni di Lisa e spinto dall’odio e dall’invidia per Leo decide di sparare a questo, ma nel momento in cui preme il grilletto si accorge di non aver caricato l’arma e, così, Michele finisce con l’essere deriso dai presenti. Questa azione permette all’opera di essere definita come “grande tragedia mancata” marcando così la perdita di contatto con il reale.

Alberto Moravia, obbligato a rimanere a letto per nove anni, si avvicinò al teatro come via d’uscita alla realtà. Il teatro e la lettura hanno aiutato l’autore a sopravvivere a eventi traumatici e, forse, scrivendo questo romanzo, provò ad aiutare o addirittura salvare bambini, adolescenti e adulti bisognosi – come un tempo lo era stato lui.

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