Arte da bere

Sin dai tempi più remoti, l’uomo ha individuato i massimi piaceri della vita in due esperienze. In primis il rapporto amoroso, in qualsiasi sfumatura lo si voglia osservare, in secondo luogo il bere, per lunghi secoli associato a un’unica paradisiaca bevanda: il vino. Quest’ultimo in verità sa essere più fedele e rincuorante dell’amore stesso, tanto che ha sempre funto da dolce consolazione ogni qual volta la corrispondenza del sentimento è venuta a mancare.

Se ne era accorto il poeta greco Alceo già nel VII secolo a.C., il quale arrivò a definire il vino “l’unica medicina, la migliore contro le sventure”; lo riconfermò secoli dopo il romano Orazio, ancora lo ribadirà Baudelaire nell’Ottocento, cantando la sublimità della “ambrosia vegetale, prezioso grano sparso dal seminatore eterno”.

La storia dell’arte ha saputo approcciarsi al bere sia attivamente che passivamente: da un lato ha sfruttato il bere come energia propulsiva e ispiratrice, dall’altro ha saputo cogliere gli effetti, positivi e non, che la frequentazione delle bevande alcoliche genera negli altri.

Un rapporto, quello arte-atto del bere, che si è conservato in ogni momento della nostra storia e che vorrei ripercorrere attraverso alcune realizzazioni.

Dal mondo antico, la Grecia che per prima seppe riconoscere il vasto valore connesso all’atto del bere. Il vino, nell’esperienza greca prima ed etrusco-romana poi, ebbe un significato tanto importante che persino una divinità gli venne connessa. Si tratta inevitabilmente di Dioniso, il Bacco dei romani, che al meglio incarna il senso intimo della bevanda: Dioniso rappresenta il vino, ma insieme anche l’estasi e la liberazione dei sensi, fino a culminare in un irrefrenabile fluire della vita che ogni cosa permea.

Nel cratere a calice a figure rosse del IV secolo a.C. lo si rappresenta in compagnia di Arianna, l’unica figura dalla pelle chiara. Il dio, alla sinistra della giovane, è raffigurato insieme con il canonico tralcio di vite, bene che diffonde nel mondo donandolo ai popoli. Il cratere, ovviamente, era usato per la mescita del vino. Il tema di Bacco e del simposio si rivelò dominante in tutta la ceramica dell’epoca, alla stregua di scene tratte dall’epica. Con l’avvento della cristianità il soggetto del bere diviene marginale, sebbene il vino domini ogni rappresentazione dell’ultima cena di Cristo con il suo valore simbolico.

Sarà a partire dal Quattrocento che i pittori torneranno alla diretta raffigurazione di momenti di ebrezza dettati dal vino, recuperando anche un significato etico di fondo.

Il vino domina la scena nell’opera di maggiori dimensioni giuntaci di Pieter Bruegel il Vecchio, datata 1565-1568: Il vino della festa di San Martino. Il protagonista del dipinto dovrebbe essere San Martino, che scorgiamo sulla destra intento nel suo atto di carità. Tuttavia, lo sguardo si sposta inevitabilmente sulla montagna umana al centro del dipinto, intenta ad attingere il proprio bicchiere nel primo vino della vendemmia. Il vino in questa tempera non è celebrato, bensì raffigurato come monito e come esempio di ciò che nell’uomo suscita. L’umanità è qui trascinata dal peccato di gola, contrappeso all’atto di Martino, il quale non ha controllo su questa “Babele di bevitori”.

Partendo da questo e rifacendosi ai vari “Bacco” raffigurati nei secoli precedenti (domina su tutti quello di Caravaggio del 1596 conservato agli Uffizi), il genio spagnolo di Diego Velázquez riesce a compiere una stupenda crasi tra il soggetto mitologico di Bacco e il consumo del vino nella quotidianità delle osterie cittadine, dipingendo nel 1628 il suo I beoni o Il trionfo di Bacco.

Come già accaduto in occasione di soggetti religiosi, Velázquez attinge i volti e i modi dei cortigiani di Bacco dalla Madrid che gli si apriva di fronte, da un lato riuscendo a conservare il significato celebrativo del dio, dall’altro rendendolo più umano per via della sua compagnia, il tutto fino a una estrema interpretazione per cui il valore di Bacco in questo quadro sarebbe puramente allegorico, analogo a quello di una bottiglia di vino posta in fianco ai bevitori.

Giungiamo così alla modernità, con l’opera che probabilmente ognuno associa all’idea di alcolismo. L’assenzio di Edgar Degas, dipinto nel 1875: una delle migliori raffigurazioni della solitudine. La bevanda alcolica non è più il vino; la modernità ha distillato nuove straordinarie pozioni, le quali hanno completamente dominato la psiche dei due soggetti impressi, immergendoli in un isolamento che non trova incontro con il reale. Degas rompe con il passato, scegliendo di evidenziare gli effetti dell’alcol sull’essere umano, lasciando all’osservatore la possibilità di elaborare un giudizio. Lo sguardo della protagonista può sottendere smarrimento e vuoto, ma anche emancipazione e intimo riparo.

Arriviamo all’artista che non ritrae l’atto del bere o i suoi effetti, bensì crea arte ispirato dall’assunzione alcolica. L’artista inglese classe 1981 Bryony Kimmings ha scelto di creare i suoi lavori (comporre musica, scrivere, realizzare coreografie) assumendo per una settimana continua importanti dosi di vodka, controllata nel mentre persino da una equipe medica. Durante il suo operare si è filmata costantemente con sei telecamere, salvo poi utilizzare le riprese per il montaggio di un video mostrato al pubblico.


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