I nostri cocci sparsi

Che non sarei mai diventata come te, ti gridavo.
Tu, in silenzio, cambiavi stanza e per me voleva dire che avevi un cuore di ghiaccio e le mie parole non l’avevano sciolto.
Senza rispondere, ti allontanavi e allora io mi ripetevo e gridavo più forte e provavo a scalfire il marmo nel tuo petto. Usavo le frasi per ferirti, con una cattiveria simulata e con un’esagerazione che speravo ti apparisse credibile. Ti riversavo addosso tutto il mio rancore, i miei capricci, i miei rimorsi, le mie paure. Disperatamente volevo il tuo aiuto senza doverlo chiedere e, tra tutte quelle grida, speravo che più di tutto ti giungesse l’eco del mio rammarico.
Perché avrei voluto dirti il contrario di tutto ciò che pronunciavo, una dichiarazione d’amore invece che d’odio, un abbraccio al posto di una porta sbattuta.
Non accettavo che tu semplicemente andassi via, che tu arginassi il mio flusso di coscienza innalzando un muro. Dovevo essere io quella che ti escludeva, incompresa, che ti tagliava fuori, che ti confinava oltre una porta sbattuta, oltre le quattro pareti della camera.
Ma tu non capivi, tu non capivi niente, tu non mi capivi.

Che non sarei mai diventata come te, ti gridavo.
Sarei stata paziente, non avrei perso la calma. Sarei stata comprensiva. Sarei stata indulgente. Avrei perdonato. Avrei chiesto scusa. Avrei abbracciato.
Sarei stata pronta ad elogiare ogni successo e, soprattutto, ogni insuccesso.
Io avrei capito. Questo mi dicevo sottovoce. Mentre ti urlavo contro, mi ripetevo come sarei diventata. Io non sarei stata arida di dimostrazioni d’affetto. Mi sarei mostrata aperta ai cambiamenti, alle idee degli altri. Non avrei calpestato i sogni di nessuno, anzi li avrei sostenuti, incoraggiati.
Io sarei stata in grado di capire.

Mentre scendevo in trincea, forte delle mie sicurezze, certa di avere in te un nemico, non comprendevo, però, che ero io a non capire.
Non mi rendevo conto che mi davi le spalle per nascondere le lacrime, perché la mia lingua lo scioglieva il tuo cuore e tutto insieme sgorgava dai tuoi occhi.
Non volevi mostrarti fragile, vulnerabile, non potevi cedere perché non era quello il tuo ruolo, non avevi il diritto di mostrarti debole. Non potevo mica saperlo che dentro di te stavi ripetendo un giuramento fatto a te stessa molto tempo prima.
Che non saresti mai diventata come lei, ti ricordavi.
Non saresti crollata.

Banalmente sono dovuta crescere per rispondere ai banali “quando sarai grande capirai”. E ho capito, mamma, ho capito.
Smetto di gridare, smetto di vederti correre in direzione ostinata e contraria alla mia, smetto di considerarti come un ostacolo, smetto di cercare la tua approvazione.
Smetto di voler essere diversa da te, di costruire me stessa su un impianto oppositivo e me le tengo strette le mie radici, i tuoi abbracci più frequenti, le fragilità che riesco a scorgere dentro alle tue iridi che tremano.
Ho dovuto solo aspettare di non essere più una bambina affinché tu non mi considerassi tale. E quanto c’è voluto. Non misuro il nostro tempo in anni, ma in discussioni, litigi e incomprensioni, in tutte le volte in cui non mi hai capita e non mi sono fatta capire. In ogni moto interiore che mi provocava il tuo farmi male “per il mio bene”. A me sembrava un copione sceneggiato male e tu apparivi una pessima attrice, chiusa in un ruolo istituzionale, quello di madre.

La verità, però, è che tu hai imparato ad essere madre mentre io imparavo ad essere figlia. Siamo cresciute insieme e ci siamo odiate perché troppo simili.
Ci siamo odiate di quell’odio esagerato che si prova solo quando si ama qualcuno smisuratamente, con tutte le viscere, con tutta l’anima. Ci siamo detestate per sbaglio, scoprendo l’una i propri difetti nell’altra: perché peggio del tuo silenzio c’erano le tue grida in risposta alle mie, che era come dare fiato alla bocca guardandosi allo specchio.

Per questo abbiamo raccolto i nostri cocci sparsi, abbiamo levigato le nostre superfici e ci siamo concesse una tregua.
Per questo ora che siamo un po’ più grandi sappiamo amarci senza farci male.

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