Raffaello e l’influenza del San Matteo di Michelangelo

È il 1506 quando Michelangelo, a Firenze, inizia a lavorare ad uno dei suoi più grandi capolavori, il San Matteo. Tuttavia è costretto a interrompersi quando il pontefice, Giulio II, richiede la sua presenza a Roma per affrescare la Volta della Cappella Sistina. Ed è proprio nell’Urbe che avviene l’incontro che cambierà per sempre la vita di Michelangelo. Difatti, qui egli assiste al ritrovamento del Laocoonte e rimane immediatamente folgorato dalla potenza espressiva e drammatica di quelle linee così intricate, di quelle torsioni così forti e originali da cui risuona l’urlo di dolore di Laocoonte e dei suoi figli nella loro agonia straziante. Tornato a Firenze dopo uno dei tanti litigi con il pontefice, riprende a lavorare al San Matteo, proiettandovi quella forza d’urto straordinaria.

Tra il 1504 e il 1508, Raffaello Sanzio si trova a Firenze e coglie l’occasione per cimentarsi nello studio delle grandi opere presenti in città. È soprattutto il San Matteo di Michelangelo a colpirlo. Il suo è un innamoramento repentino, tanto che, in uno degli studi per la Pala Baglioni, cui Raffaello sta lavorando in quegli anni, troviamo uno schizzo della statua, conservata nella Galleria dell’Accademia di Firenze.

Raffaello è avido di sapere, vuole imparare i segreti dei grandi maestri, è come una spugna che assorbe tutto quello che riesce a vedere, a studiare, ad osservare. Per cui il San Matteo è l’ispirazione: Raffaello lo studia, lo sviscera cercando di carpirne i segreti. Utilizza quanto imparato nella sua Santa Caterina, in cui l’influenza michelangiolesca si unisce a quella della Leda di Leonardo da Vinci, che in qualche modo ne ingentilisce la torsione drammatica. Ne risulta una figura statica, ma animata da una morbida serpentina, come a ricalcare il movimento della ruota dentata, simbolo del martirio della Santa.


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