Rivoluzione blu: il sogno economico di Java sommerso dall’oceano

Cercando Java su Google immagini, compaiono le fotografie di un’isola di spiagge paradisiache, di antichi templi al tramonto, di ieratici Buddha incuranti degli enormi vulcani alle loro spalle. Insomma, grande cultura e notevole patrimonio paesaggistico. Dal punto di vista economico, però, tutta questa ricchezza viene meno. È vero, sull’isola di Java c’è la modernissima Jakarta, capitale dell’Indonesia, che attira continuamente popolazione dalle campagne. Ma i villaggi poveri sono ancora molti. Proprio queste zone, negli ultimi anni, hanno vissuto una vera e propria rivoluzione, la cosiddetta Rivoluzione blu.

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Questo fenomeno è iniziato negli anni ’80 e si concentra sopratutto in Asia. Ma di cosa si tratta? È “semplicemente” l’estensione dell’acquacoltura, che in breve tempo è diventata una risorsa fondamentale per alcune zone povere. Si tratta della risposta più ovvia all’aumento della richiesta e al ristagno del rendimento della pesca. Ma è una vera e propria rivoluzione perché, dal 1980 a oggi, l’allevamento ittico è aumentato del 1400% e nel 2012 tale produzione, a livello mondiale, ha superato per la prima volta quella dell’allevamento bovino. Sono cifre enormi, anche se fanno riferimento alla scala globale. E, se in paesi come gli USA l’acquacoltura avviene in costosi impianti coperti, nelle aree povere del mondo non è così. È una risorsa da sfruttare al massimo per lanciare l’economia interna e i governi, per raggiungere questo obiettivo, non guardano in faccia a niente e a nessuno.

È proprio ciò che è successo in Indonesia. Politiche governative discutibili hanno raso al suolo le foreste di mangrovie in alcune regioni costiere dell’isola di Java. Al loro posto, vasche per l’allevamento intensivo dei gamberetti. Per qualche anno, in effetti, l’acquacoltura ha risollevato l’economia di queste aree, creando enormi speranze nei pescatori locali. C’è da dire, però, che i controlli e le direttive non sono come in Europa, Giappone e Stati Uniti. Vengono infatti usati pesticidi ed antibiotici proibiti altrove, con conseguenze sulla qualità del prodotto. I rischi maggiori, però, sono di carattere ambientale. Invero, le vasche per l’acquacoltura, se non adeguatamente controllate e pulite, diventano acquitrini, miscele putride di azoto, fosforo e pesci morti.

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Ma il risultato più disastroso della Rivoluzione blu è un altro. A causa dell’abbattimento delle mangrovie per creare le vasche e dell’estrazione di acqua dal sottosuolo per riempirle, il terreno ha perso solidità. Erano proprio le radici di queste piante a dare al suolo resistenza, evitando che si compattasse e che cedesse all’avanzata dell’acqua. E l’oceano non aspettava altro: in poco tempo ha completamente sommerso le zone di acquacoltura, cioè le vecchie foreste disboscate. Quella che è brevemente sembrata la salvezza economica di intere regioni, si è dimostrata il loro più grande nemico. Villaggi come Bedono, sull’isola di Java, sono stati interamente inondati e la popolazione è dovuta fuggire, trovandosi in una condizione di povertà ancora maggiore rispetto all’inizio della Rivoluzione. A Bedono sono rimaste solo due donne: vivono su palafitte e coltivano mangrovie, che stanno lentamente riprendendosi il loro spazio. Anche il governo indonesiano ha compreso l’errore e sta ora promuovendo il rimboschimento, ma per intere famiglie, che hanno perso tutto, è ormai troppo tardi.

Credits: Pixabay (1) (2) – Google Maps (3)

Fonti: Repubblica National Geographic

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