Chi ha paura del genere?

Uno spettro sembra aggirarsi nei luoghi che le persone comuni frequentano quotidianamente, dai bar ai luoghi di ritrovo. Si tratta del gender, che altro non è che la traduzione di genere. Una paura, quella della inquietante novità di cui molto si parla in questo periodo, che sembra aver contagiato anche la politica, in particolare il Ministro degli Esteri Alfano.

Questi, riporta «La Stampa», nel corso di un Consiglio dei Ministri a metà febbraio, ha duramente contestato la forma delle deleghe alla legge 107 sulla scuola. La formulazione della neo ministra dell’Istruzione Fedeli prevedeva un’enunciazione di principio sull’abbattimento degli stereotipi di genere.

Non, quindi, un’enunciazione della famigerata teoria che la frangia cattolica del Parlamento associa alla comunità LGBT, bensì un riferimento a maschile e femminile. Dall’educazione in età prescolare – ha sempre sostenuto la ministra – è necessario partire per scongiurare la violenza (appunto) di genere. Una ulteriore dimostrazione di quanta poca chiarezza ci sia sulle fattezze, gli attributi e i significati del tanto citato gender.

Alfano è però stato irremovibile, cosicché quella porzione di testo è stata cancellata in favore di una generica menzione dell’articolo 3 della Costituzione, che esige che “ai bambini e alle bambine siano garantite pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”.

Da dove si origina la tensione che genera reazioni tanto violente? Che cosa si intende per tematiche di genere, verso cui Fedeli si è sempre dichiarata attenta? Può essere utile a capirlo la petizione rivolta tramite la piattaforma Change.org,

Proprio nella scuola dell’infanzia è indispensabile educare alle emozioni, spiegare che piangere non è da femminuccia, che la rabbia non è un’emozione positiva neanche per un maschietto, che non si risponde ad uno schiaffo con uno schiaffo, che non si dà un bacetto a una bimba che non lo vuole, che un maschietto può essere timido ed una bimba spavalda, un maschietto può avere paura ed una bimba può desiderare di dare calci ad un pallone. Vogliamo che nella scuola dell’infanzia si leggano ed usino libri che non confinino le bambine nel ruolo di principesse e i bambini in quello di supereroi. Vogliamo che a tutte/i siano offerti tutti i tipi di giochi, che maschi e femmine siano educati all’empatia e al prendersi cura dell’altro/a, a rispettarsi, a riconoscere e comprendere le emozioni.

Si può riconoscere in queste parole l’ombra di un mostro? Una polemica non nuova, quella sul superamento degli stereotipi di genere a misura dei più piccoli. Basti ricordare la violenza delle reazioni che, nel corso del 2015, avevano investito il gioco elaborato da Lucia Beltramini (psicologa e ricercatrice) e Daniela Paci (insegnante). Si chiedeva ai bimbi degli asili di associare figurine in cui lo stesso mestiere è compiuto da un uomo e da una donna, oppure di ascoltare i rispettivi battiti cardiaci, per avere prova che fossero identici. Agli occhi dei genitori e di alcuni media, questa era diventata “educazione alla pornografia”.

Non fa che riproporsi, da parte di esponenti dell’area di centro destra, l’insistenza sul dato per cui – con le parole di Matteo Salvini – “il maschietto è maschietto, la bimba è bimba”. L’uno fa il pompiere, l’altra le lavatrici. Pena veder decadere la virilità dell’uno, o l’avvenenza dell’altra che a questo punto si trasformano, per colpa della “teoria gender” in gay e lesbiche, ovvero forme in qualche modo snaturate dei due generi.

Una fantomatica teoria che altro non è che una malfatta traduzione di “studi di genere”, compiuti da Università e istituti di ricerca, che attestano il divario tra i due generi (gender gap) che, una volta colmato, porterebbe una progressione produttiva per il Paese, che oggi è invece 42esimo nel ranking appositamente formulato.

Un’equa suddivisione dei compiti è stata dimostrata economicamente vantaggiosa per la collettività, benché anche parte delle istituzioni sembrino non concordare. La prassi comune in Italia appare lontana dalla parità, se ad esempio tra i professori ordinari delle Università solo il 21% sono donne.

È quindi necessaria una posizione impositiva come quella della Normale di Pisa, le cui assunzioni privilegeranno le donne, a parità di curriculum, fino al raggiungimento della parità statistica, come riportato da un’inchiesta del Corriere della Sera?

Scelte simili potrebbero essere considerate eccessi. Non sarebbero state evitabili agendo sull’educazione e spogliandosi di preconcetti timori?


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